Un non-romanzo, dunque. Questa volta Goran Vojnović ci offre riflessioni, appunti a carattere storico e psicologico, dunque l’approccio non è narrativo; pure, leggendo un capitolo dopo l’altro, si ha la sensazione di trovarsi al centro di un racconto che si dipana su piani temporali diversi e concentrici, dal Prologo e la figura del bisnonno di origini ucraine Leon Obleščuk alla questione identitaria (la non-appartenenza, il non essere definiti da un nome, da un’etichetta, può essere un privilegio, una sorta di patente di sincerità e trasparenza), dalla fanciullezza dell’autore (le figure dei genitori, i fili sottili che per decenni lo hanno legato e ancora lo legano ai loro sogni e alle loro paure che sono anche i suoi), al suo (mesto) sguardo di adulto su ciò che sta diventando – soffocata da architetti e progettisti urbani, gli unici autorizzati a giocare con lo spazio – Lubiana, la città dove lui e i suoi figli sono nati, dove vive e lavora, e che non ha mai sentito sua, salvo in rarissimi eccezionali momenti e allo sguardo (ancora più sconcertato e presago) sull’Europa giusta e umanitaria, quella che da settant’anni continuava a ripetere never again e che negli anni Novanta non ha visto, non ha sentito ciò che stava accadendo a poche centinaia di chilometri dai suoi confini, che nel 1995 si è limitata ad assistere in silenzio al massacro di Srebenica, quella che oggi è «un’Europa che chiude le frontiere a chi fugge da qualche nuovo Mladić e Karadžić […]» (p. 72).
A questa Europa nulla è vicino e sta diventando estranea anche a sé stessa «un continente remoto che non vuole capire un tempo che si è fermato e un dolore che non si placa». L’Europa si è adoperata e si adopera in ogni maniera al fine di far sì che in apparenza il never again rimanga tale, che sembri che la guerra e i suoi orrori in apparenza non si stiano ripetendo, che gli eventuali scontri (e con essi le vittime, i disastri) avvengano in luoghi da noi troppo lontani perché dobbiamo preoccuparcene, oppure siano di altra natura, questioni interne, guerre civili ovvero interventi militari necessari (per esempio l’aggressione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti). I cerchi continuano a srotolarsi fino a toccare i giorni nostri, la guerra in Ucraina, la pandemia, sempre e sopra ogni cosa la disgregazione della Jugoslavia e ciò che ha significato per coloro che l’hanno subita.
Raggruppati in cinque sezioni tematiche, i diciotto saggi – di grande trasparenza e di superba scrittura, arguta, autocritica, ironica, tenera, commovente, qua e là pungente, altrove mesta – sono stati tutti pubblicati dal 2014 al 2021 (salvo Ritorno all’illusione, inedito, e Il rispetto per il prossimo e la paura, trasmesso sul terzo programma della Radio slovena) su quotidiani e riviste sloveni («Dnevnik», «Literatura»), tedeschi («Frankfurter Allgemeine Zeitung»), serbi («Vreme»), croati («Telegram»), sulla piattaforma europea «Versopolis», sulla rivista svedese «Sydsvenskan» (C’è un dolore che ha una vita più lunga della vita stessa), e scritti nelle rispettive lingue (l’autore ringrazia Biljana Bojan Vojnović – la madre e il padre – per la stesura in serbo-croato); rielaborati radicalmente per l’edizione libraria, molti di essi hanno costituito soltanto il pretesto per una riflessione ulteriore.
Il piglio è narrativo, sostenuto da immagini filmiche, di presa immediata «immagini nitide, quasi incandescenti» (Dražen, p. 98), e dalla incomparabile capacità dell’autore di imprigionare l’attimo fuggente, «i nostri allontanamenti dalla realtà, da tutti quei momenti altamente insoliti in cui noi non siamo veramente noi e ciò che sperimentiamo non è veramente la nostra vita» (p. 128).
I riferimenti autobiografici continui e spesso aneddotici, sorridenti e leggibili come racconti brevi. Colpiscono dritto al cuore i tre capitoli della sezione Il diritto alla nostalgia, improntata alla generosa e coraggiosa ossessione per il lascito del paese dissolto del poeta, saggista, scrittore e pubblicista Aleš Debeljak, ne celebrano la rivolta intellettuale contro il dilagare dell’ignoranza, il suo rivolgersi con nostalgia allo spazio culturale jugoslavo, la cui perdita è da lui stata pubblicamente e ripetutamente dichiarata fatale per la giovane Repubblica di Slovenia.
Se il tono si alleggerisce nel capitolo La lingua del nostro appartamento (la divertita messa alla berlina della costruzione a tavolino di una purissima lingua croata, ben distinta da quella serba e bosniaca e montenegrina), in Dražen l’ammirazione e l’amore per un eccelso e irraggiungibile modello sportivo si unisce all’amarezza per l’avvenuta divisione del suo pubblico, dei suoi fan.
Storie dell’infanzia, dell’adolescenza e della vita adulta dell’autore, quelle che hanno dato corpo alla sua letteratura.
Vi ritroviamo i luoghi cari alla sua geografia narrativa: Fužine e il socioletto fužinese – liberatorio per dei bambini che non parlavano bene né lo sloveno a scuola né la madrelingua a casa, con parenti e amici –, onnipresenti Pola e la via Dinko Vitezić, Lubiana con il Parco di Barje e quello di Tivoli dove siede appartata la statua di bronzo di Edvard Kocbek né poteva mancare la Bosnia Erzegovina con la Visoko del giovane cefur Marko; l’autore cerca di organizzarli, di comprenderli e di scoprire innanzitutto le ragioni per cui racconta le storie, l’illusione della necessità e dell’irripetibilità di ciò che si scrive. Ci sono il coming of age, i genitori, la famiglia, gli studi, un primo lancinante fallimento nella carriera di regista cinematografico6 e la cauta autocritica e autoironica accettazione del successo, della fama.
In queste pagine l’autore – partendo molto da lontano, il bisnonno Leon Obleščuk originario dell’Ucraina, gli antenati emigrati dall’allora Galizia nella Bosnia Erzegovina appena annessa all’impero asburgico – collega il proprio passato e il presente, riconosce lo spazio che un tempo lo definiva, l’epoca della fanciullezza lubianese, slovena ma connotata dalle origini famigliari bosniache e dall’insicurezza vissuta in quanto figlio di immigrati, il proprio confrontarsi con il multilinguismo e con gli agguati di innumerevoli paure. Nella sua collezione – che progressivamente si amplia – sono comprese quelle infantili del buio e dell’abbandono, dei grandi cani che ringhiano e dei ragazzi aggressivi che ghignano, la paura di volare, della solitudine, la paura che vengano rivelate ed esposte le altre paure, cioè la paura del ridicolo e dell’umiliazione, e a un certo punto la più grande di tutte le paure, quella della morte. Un giorno, però, il collezionista di paure rimane senza la sua collezione: "Mi ci sono voluti trent’anni per vivere senza paure e a volte penso che a trentasette anni continuo a vivere nell’eco del loro allontanarsi (p. 36)". E prova una pace epicurea, caratterizzata dall’assenza di negatività, liberatoria e rinunciataria.
Se la Jugoslavia era una prassi fondata su un’idea, la sua disgregazione significò la distruzione della cornice entro la quale gli individui avevano trovato la propria legittimazione, dove non era necessario spiegare sé stessi a nessuno. Dissolvendosi quella cornice, gli individui persero tutto, beni materiali e ideologia, rituali pubblici e spazi privati, la vicinanza di amici e parenti e la rincuorante sensazione di trovarsi in mezzo a gente che si muoveva in un identico campo di riferimento, e soprattutto e tragicamente si perse l’ubiquità di una lingua che tutti capivano e nella quale tutti potevano comunicare. La lingua in cui avevano scritto Ivo Andrić, Miroslav Krleža e Danilo Kiš: cancellati per decreto dai libri di testo delle scuole slovene all’indomani dell’indipendenza.