Se i romanzi di Amélie Nothomb fossero dei quadri, certamente seguirebbero il movimento surrealista. Se Freud fosse ancora in vita sarebbe lieto di poterli interpretare. Poiché sono il risultato della scrittura, i romanzi di Amélie appaiono come veri e propri sogni a occhi aperti a narrare automatismi psichici. Non ci sarebbe così tanto autobiografismo se non fossero avventure oniriche e pertanto Il viaggio d’inverno è l’ennesimo viaggio onirico nothombiano.
Quando in libreria esce un suo romanzo tutta la critica si scatena. Ogni pagina passa al setaccio e la diagnosi è inconfondibile tanto che verrebbe voglia di abbozzare una sorta di cartella in cui surrealismo e metodicità si rincorrono. Se il surrealismo fosse una patologia, sarebbe in relazione con l’area di provenienza, il Belgio, come per Amélie. La metodicità con cui questa scrittrice “partorisce” nuove opere è incredibile, la fa assomigliare a una sorta di vampiressa i cui libri danno una certa vertigine ai lettori, alla critica, ai suoi editori e, non per ultima, a sé stessa. Con questi presupposti c’è molto da dire su Il viaggio d’inverno. Che poi si dica che sia volutamente collegato al lied Il viaggio d’inverno di Schubert, è un tranello. Che poi sia anche un viaggio psichedelico suscitato dall’assunzione di funghi allucinogeni, è un trip. Che sia in più un viaggio d’amore... no, è un viaggio d’inferno! Il viaggio di un uomo, Zoïle, venditore di soluzioni energetiche per il riscaldamento che paradossalmente si scontra con l’irrimediabile gelo fisico e metafisico di un amore impossibile. Rifiutato dalla sua bella decide di schiantare un inferno su Parigi. Alla guida di un Boeing 747, parte non a caso da nord: dal “freddo”di un inverno interminabile, simbolo del “freddo”di un amore mal corrisposto.È il viaggio di un folle. Non che il rifiuto di una donna lo abbia reso tale, probabilmente il germe della follia c’era già al punto da portarlo a scrivere un diario di bordo, una sorta di testamento redatto nelle ultime quattro ore di vita e per questo, 112 pagine, onestamente è fin troppo lungo. Ma è il diciottesimo romanzo di Amélie alla cui brevità siamo abituati e possiamo dire che rientra nel suo stile. Il suo dono per il romanzo surrealista questa volta va dalla A alla Z, da Aliénor a Zoïle, passando per Astrolabe e Amélie, tutti apocalitticamente a picco sulla Tour Eiffel. Il viaggio viene declinato in diversi e rapidissimi aspetti: musicale, psichedelico e terroristico. Tutti offrono delle chiavi di lettura sapientemente intrecciate nella storia di questo amore surreale. Altrimenti come si spiega il perché di tanti personaggi, ciascuno a modo proprio, profondamente alienati?
Il viaggio d'inverno è piacevolmente narrato. Ci sono passaggi bellissimi che verrebbe voglia di incorniciare come quadri d’autore. Contengono tutto il mondo della metaafora autobiografica di Amélie, sfumata in tutti e tre i personaggi. Vari elementi puntualmente tornano come in una sorta di romanzi seriali. Lo champagne, per esempio. Per l’occasione un Roederer. Ma poi ecco la novità, seppur nel rituale: la scelta dei nomi. Sempre eccentrici, eppur sempre veri. Questa volta includono l’umanità intera dalla A rimbaldiana alla Z di Zoïle. In mezzo a tanti esseri alienati c’è anche lei, Amélie naturalmente, che tra “autore protagonista lettore” vuole convincerci che la Tour Eiffel è a forma di A perché Gustave Eiffel era perdutamente innamorato di una donna che come lei portava il nome di Amélie. Be’, proprio come lei forse no... e il lettore si sorprende, si diverte, o ci crede.