Scholastique Mukasonga
Traduzione dal francese di Giuseppe G. Allegri
Utopia, 2020
A metà strada tra cronaca e leggenda, Kibogo è salito in cielo conferma il ruolo assunto da Scholastique Mukasonga nella sua più recente produzione, ovvero di contastorie: le donne che la sera nei villaggi ruandesi intrattenevano i collinari attorno al fuoco con i loro racconti.
La storia narrata nel romanzo ha inizio su una delle mille colline del Ruanda negli anni ’40 del secolo scorso. La colonia tedesca è ormai passata in mano ai belgi e, con il loro arrivo, il potere dei padri missionari – o meglio, la loro ingerenza – nella politica ruandese diventa preponderante. Il re, da sempre massima figura secolare e depositario della tradizione spirituale ruandese, accetta il battesimo voluto dai colonizzatori imponendo così il cattolicesimo alla nazione. I padri mettono al bando ogni culto locale tant’è che riti millenari diventano di punto in bianco «esoterici», «demoniaci», e ha inizio la lotta per estirpare il paganesimo ed «evangelizzare» il Ruanda votandolo ai culti di Gesù e Maria. Ma tra le leggende locali ce n’è una che richiama da vicino la storia di Gesù come viene raccontata dai padri e riportata nei messali scritti in una lingua incomprensibile alla popolazione indigena. È la leggenda di Kibogo, il figlio del re che, dopo aver riportato con i suoi riti la pioggia che disertava le terre ruandesi con Mukamwezi la sua sposa, fu assunto in cielo tra le nuvole, proprio come Gesù e Maria. Si aggiunga a questo la presenza nel villaggio di un giovane seminarista ruandese, di nome Akayézu – piccolo Gesù, che predica un vangelo tutto suo: un misto tra il vangelo cristiano e la leggenda «pagana» di Kibogo, così come la raccontava ogni sera sua madre contastorie. Le analogie sono tante, passare da una storia all’altra è un attimo, e di fronte alla grande siccità… va bene pregare Gesù e Maria, ma perché non ricorrere anche a Mukamwezi invocando Kibogo per far tornare la pioggia?
Scholastique Mukasonga racconta, con magistrale equidistanza e impareggiabile ironia, chi la colonizzazione la subisce e si vede imporre un nuovo credo, dando così origine ai fenomeni di sincretismo religioso. Continua così l’opera di Mukasonga che, dopo i primi romanzi da lei definiti «un sepolcro letterario» per i suoi tanti familiari uccisi durante il genocidio dei Tutsi, vuole dare forma scritta a una cultura che per secoli ha conosciuto solo la trasmissione orale.
Kibogo è un bellissimo racconto dall’apparente semplicità che rivela livelli di lettura complessi con rimandi storici e culturali di rilievo. La complessità traduttiva sta nell’accogliere e restituire un testo che fa della propria particolare ricchezza linguistica la chiave per contenuti universali.
Il testo originale presenta un elevato numero di francesismi della francofonia coloniale – a cui il lettore francese è, giocoforza, maggiormente aduso – chef, chefferie, évolués...; oppure forestierismi derivati dal kinyarwanda, alcuni dei quali presentano delle difficoltà nel passaggio all’italiano: su tutti il termine «padri» (singolare e plurale) dell’originale, lemma ricorrente dall’elevata pregnanza semantica in un testo che ha come uno dei temi principali il sincretismo religioso.
Per il lettore dell’originale il termine “padri” è un forestierismo ruandese che risalta per la sua estraneità al francese e anche per l’invariabilità nel suo impiego, seppure comprensibile come termine per via della radice latina. La resa in italiano tende a perdere la fondamentale estraneità poiché coincide con il plurale di «padre», e cioè «padri» perdendo così il suo effetto “forestiero”. Per restituire al lettore italiano l’estraneità e l’importanza che il termine riveste nel testo, si è scelto dunque di mantenere l’originale «padri» (che, giocoforza, mantiene l’effetto straniamento solo al singolare: il/un padri) scritto però sempre in corsivo per accentuarne la rilevanza. Per converso si è deciso di rendere il francese “père”, quando indica un religioso, con traducenti diversi da «padre» e quindi “sacerdote, missionario, prelato…”. Il forestierismo e la sua invariabilità derivano dal kinyarwanda: il lemma umupadri-abapadri (sing./plur.) nella sua forma abbreviata al radicale padri indica non solo uno o più «padri missionari» ma soprattutto «padri bianchi» e quindi coloni. Nel testo tale forestierismo a forma invariabile (che può essere letto come ‘rigidità’ e ‘assenza di adattamento e malleabilità’ tipica delle dominazioni coloniali) assume una fondamentale importanza in quanto sottolinea la presenza estranea dei padri missionari (si noti l’importanza del plurale!), incistatisi nel linguaggio oltre che nel territorio.
Altre difficoltà riguardano invece realia e culturemi sparsi nel testo e che talvolta rimandano, sotto le mentite spoglie di termini comuni francesi, a realtà oggettive ben diverse possibili da identificare e distinguere solo attraverso immagini che ne restituiscano il contesto. Il termine “cruche”, ad esempio, per il quale i dizionari riportano il generico “brocca”, nella quotidianità del Ruanda dell’epoca corrispondeva il più delle volte a degli “orci”, capienti recipienti in coccio attorno ai quali si sedevano gli uomini per bere, tuffando ognuno la propria cannuccia, birra di sorgo o di banana.
A metà tra cronaca e favola, il Kibogo di Scholastique Mukasonga è scritto con uno stile sobrio, distaccato e per certi versi asciutto (funzionale all’emersione dell’ironia sottile e sottesa che pervade il romanzo). Alcuni personaggi sono caratterizzati da un registro familiare, altri invece da uno sostenuto. Certi poi ne utilizzano uno ancor più formale che sfora talvolta nell’antilingua se non nel burocratese, in genere si tratta di ruandesi desiderosi di farsi accettare dai bianchi: per esempio il catechista, l’addetto comunale, entrambi caratterizzati da un comportamento il più delle volte “più realista del re”.
Oltre allo stile e ai registri si è cercato, in accordo con l’editore, di salvaguardare il ritmo di lettura coinvolgente, evitando di spezzettarlo con quantità di note, fornendo comunque aiuti alla comprensione. Nell’originale la quasi totalità dei termini in kinyarwanda – che Mukasonga desidera conservare anche nelle traduzioni – già prevede in genere una traduzione/spiegazione intratestuale inserita dall’autrice stessa. Nella versione italiana si è deciso di mantenere anche alcuni lemmi tipici della francofonia nella loro forma originale proprio per l’intrinseca pregnanza, inserendo nel testo alla loro prima occorrenza, seguendo l’esempio dell’autrice, elementi che ne spieghino/arricchiscano il significato, come nell’esempio qui di seguito dove compare il termine “évolué” che, tradotto solo con «evoluto» non avrebbe reso giustizia al suo portato semantico. “…pour vos petits enfants quand il seront évolués, civilisés, lettrés”, che diventa “…per i vostri nipoti quando saranno degli évolués, civilizzati in stile europeo, alfabetizzati” aggiungendo l’informazione chiave ed evitando note e/o pesanti perifrasi.
Inoltre, in tema di esotismi presenti nell’italiano, per evitare confusioni con il francesismo chef, «cuoco», si è optato per l’impiego del termine stesso accompagnato dall’articolo determinativo il e indeterminativo un (anziché le consuete forme lo e uno davanti a suono palatale e riservate allo chef-cuoco) e relative preposizioni articolate. Questo per dare rilievo al culturema che, difatti, non indica solo «capo», altro significato di chef, ma in sé rimanda al sistema di ripartizione in chefferie, (territori su cui è esercitata l’autorità di un chef tradizionale alle dipendenze però dell’amministrazione coloniale) introdotta con la colonizzazione belga, negli anni ‘30 del secolo scorso.
In conclusione, il lavoro su Kibogo è salito in cielo ha cercato in particolar modo di prendersi cura della tessitura del testo nell’intento di preservare e mettere in rilievo i vari motivi incastonati di gioelli linguistici che ne impreziosiscono la trama.