La cenere delle parole

Traduzione da: autore: Jean Portante | editore: Empiria, 2011 | traduttore: Maria Luisa Caldognetto | Traduzione dal francese

Articolo di Luigi Casale /// Nell’aprile scorso è uscita in Italia, presso Empirìa, un’antologia di poesie di Jean Portante dal titolo: La cenere delle parole. Si tratta di una selezione di più raccolte, con testo originale francese a fronte, curata da Maria Luisa Caldognetto e preceduta da un’introduzione del poeta Elio Pecora che offre al lettore una sintetica ma essenziale analisi critica. Come si legge nella nota bio-bibliografica a conclusione del volume, Jean Portante, nato a Differdange nel 1950, è un poeta lussemburghese di famiglia abruzzese. Nell’universo plurilingue del Granducato, quando si è trattato di scegliere la lingua letteraria per la sua produzione artistica, l’Autore ha optato per la lingua francese. Di questa scelta e di tutte le sue possibili cause o implicazioni sul piano personale, sia di natura psicologa, esistenziale, o semplicemente di prammatica, Portante ha fatto il tema centrale della sua poesia e, allo stesso tempo, origine e emblema della sua poetica, quasi a voler rappresentare l’anima stessa della condizione dell’uomo contemporaneo. Sono più di quindici anni che le opere di Portante (poesie e prose) vengono tradotte in italiano da Maria Luisa Caldognetto, docente all’Università di Trier (Germania). Per quanto riguarda la struttura dell’opera, La cenere delle parole presenta alcuni cicli (o sezioni) di poesie, caratterizzate da particolari forme metriche in cui è manifesto l’intento sperimentale. Le prime 24 poesie formano una sezione senta

titolo, seguono le altre sezioni con i titoli La morte del padre, Punto di partenza, Punto di sospensione, Punto d’appoggio, Punto di caduta, Punto d’incontro, Punto di domanda, La strana lingua e La storia è finita (sonetto che scompare). La prima sezione presenta una volontà di strutturazione tematica, o emblematicamente allusiva, poesie sparse che propongono il tema della sofferenza di chi è sradicato e trapiantato altrove. Ma per Portante questa è una sofferenza tutta particolare e personale, caratterizzata da una sorta di disadattamento linguistico e culturale. Pur controllando egli con competenza diverse lingue, si dichiara estraneo a ognuna di esse. Il non sentirsi parte di nessuna cultura – o dimidiato da più culture – lo porta a una regressione espressiva verso un linguaggio simbolico, in cui le cose, i sentimenti, i nuclei di pensiero, sono rappresentati per sovrapposizione di immagini: poca sintassi e tutta analogia. Il disagio esistenziale, se generalizzato, ben si adatta a rappresentare la condizione dell’uomo moderno, alienato nella sua stessa terra e estraneo alla sua stessa cultura. In questa sezione più marcato è il simbolismo, al quale il lettore si abituerà alla distanza. La mancanza di qualsiasi segno d’interpunzione, compresa la lettera maiuscola all’inizio delle strofe, e la libertà del verso, ma più ancora il tipo di sintassi e le forti analogie, ne fanno un esempio originale di poesia ermetica. La cenere è ciò che resta di qualcosa che brucia. Ma la cenere in senso lato (e metaforico) è ciò che resta di ogni cosa che vive. È il niente di cui si compone (o si decompone) il tutto. In principio era la Parola [Giov. 1; 1]. La Parola [divina], che era in principio – il Verbum, il Lógos – è anche il principio eterno della vita e della storia. Potrebbe essere questa una prima soluzione. Ma le parole di Portante non sono un’idea, un principio filosofico, né l’attività logico-argomentativa del linguaggio umano. Esse sono le parole concrete e vive, ricercate e trovate, per esprimere uno stato d’animo. Sono gettate là a rappresentare il vissuto. Più vicine, quindi, al Fatum che non al Lògos. Metafora per metafora, allora le parole bruciano e si consumano? Allora le parole vivono? Allora le parole sono destinate a divenire niente? Allora le parole sono il tutto? Certamente la cenere implica la trasformazione e la scomparsa, la morte, la rovina, ma per l’uomo essa è anche memoria e viatico di sofferenza. E soprattutto è segno della presenza di una vita e di una storia. È essa stessa messaggio. In sintesi questa è anche la rappresentazione (il soggetto, il tema dominante, la chiave) della poesia di Portante. La ricerca appassionata delle ragioni della sua vita, della sua sofferenza. Alla fine, consumate tutte le parole, resta la cenere. Da cui rinascono, in una diversa situazione comunicativa, rigenerate, tutte le parole. Quelle dette e quelle non dette. Percorrendo questa prima sezione non mancano le occasioni di riflessione (meditazione?) sui vari componimenti poetici: Il libro (pp. 10-11), un testo di parole, un messaggio. È la vita. Un libro non scritto da me, che non ho letto. Un messaggio che non ha trovato un destinatario, ma che può trovarne un altro. Allora quel libro non può essere il mio messaggio, perché appartiene a un altro. Se in quel libro c’è un messaggio che proviene da me, questo è solo il fatto di avertelo dato io, proprio a te. La vita è un intreccio di relazioni comunicative: comunicazioni attive quanto al contatto, ma non sempre decifrabili nel contenuto, se non con un codice segreto; così come sono sotterranei i canali della comunicazione. Dandoti il libro, mi sono immesso anch’io nei percorsi della comunicazione, senza avere la certezza che il mio messaggio arriverà a te come io l’ho formulato. Ancora: Parola e Comunicazione sono sinonimi di vita personale e sociale. Comunque resta il disagio esistenziale generato dall’utilizzo delle parole. Il bagno (pp. 10-11). Qui compare l’acqua. Un altro tema ricorrente della poesia del Portante. L’acqua addomesticata è reminiscenza e alterazione (generatrice di tragedie) dell’acqua primigenia. E la mente ritorna all’Acqua (come le parole portano alla Parola). Inizia il viaggio lungo i fiumi: percorsi mentali per diluire la morte. L’esito, il punto d’arrivo, la meta, dipende dal rubinetto. Il poeta ha chiara la sua visione, che, in quanto ermetica, rimane preclusa al lettore. Ma, superata la difficoltà della lettura, ognuno può optare per la scelta del rubinetto, cioè, o per l’immanenza, e allontanare così il pensiero della morte (alleggerendo la sofferenza della vita), oppure per la trascendenza e aspirare all’eternità, aprendosi alla speranza della risurrezione. Il messaggio (pp. 11-12). Il linguaggio della natura esprime i suoi messaggi. Eppure essi non hanno destinatari, ma solo riceventi. È l’uomo, vivente tra i viventi. È l’individuo, in questo caso il poeta stesso, che con la sua personalissima sofferenza si fa sensibilità a cogliere il dolore del mondo. Gli alberi si dispogliano e, come in questo inverno nel giardino dell’ospedale, chiedono tregua alla morte. Così il poeta, in sintonia col paesaggio innevato, si allinea alla sofferenza dei viventi. Mentre il cielo resta indifferente. Le riserve mentali (pp. 13-15). Il dolore, il dispiacere, il risentimento, diventano leggeri di fronte al peso di tutti i rimpianti, degli scrupoli, dei pensieri, delle considerazioni, delle giustificazioni di cui si nutre. Si fa puro come l’alcool quando viene distillato. Così, il dolore, una volta prodotto, liberato della zavorra dei pensieri, genera una teoria di sospetti. Questo, perché nel passaggio vigila un sorvegliante che alleggerisce ogni sofferenza del peso delle parole (i retropensieri). Come la morte che si presenta senza zavorra, nella sua essenziale nudità. Simmetria (pp. 14-15). Non si tratta, qui, di una situazione paradossale di tipo pirandelliano: quella è già convenzione letteraria; e neppure può essere rievocato il corto circuito della conoscenza, che resta un problema filosofico. La situazione che si descrive è invece una crisi esistenziale: è l’esperienza dell’attimo di smarrimento - il dubbio - dell’io di fronte alla realtà, ivi compreso il vissuto personale. Il soggetto nel confrontarsi con l’oggetto (il mondo reale) si riscopre oggetto a sua volta, in quanto elemento di quel mondo. C’è una porta, un passaggio da una parte all’altra, ma è invisibile. L’assenza di un ostacolo evidente (o la sua diafana esistenza, se c’è) non consente di uscire dal dilemma e non aiuta a risolvere il dubbio. Questa mancanza di risposta alimenta l’ipotesi poetica, ma nello stesso tempo rimarca la sofferenza. Resta comunque la ragnatela dei pensieri che rimandano all’inganno ... dell’eterna finzione. Punto d’incontro (pp. 16-17). Poesia cosmica, dove terra, cielo, fiumi e stelle agiscono, ma non in funzione dell’uomo. Questo scenario, trasportato nella visione affabulatrice dell’Autore si trasforma in origine e fine della sofferenza umana, che è anche quella del poeta. La corrispondenza tra mondo esteriore e mondo interiore è evidente. Il simbolismo domina e, come altrove, l’acqua e le parole ne sono gli elementi centrali, divenuti emblemi dell’ermetismo di Jean Portante. Eredità (pp. 16-19). Compaiono qui altri due temi cari a Portante, alla base della sua poetica: la condizione dell’emigrato, e la confusione identitaria dovuta all’utilizzo di una lingua altra. Paragoni, similitudini, metafore e analogie si susseguono creando un parallelismo di tipo ermetico, in cui forti sono le immagini del viaggio, origine dell’esclusione: la valigia, la miseria, il pianto, ma anche – alla distanza – l’oblio delle sofferenze e delle rinunce, e la conquista delle nuove condizioni economiche e sociali. Ma quando la situazione del ritrovato benessere potrebbe aprire prospettive interessanti, ci si accorge che nel frattempo il mondo ha cambiato idioma. Il segreto (pp. 18-19). Come ogni uomo, anche il poeta ha il suo segreto. Ma, proprio come ogni uomo, egli è in cammino, ipostatizzando così la figura dell’errante. È questo il suo segreto. Tuttavia ha timore che qualcuno gli chieda il tragitto seguito. E dice di non essere sicuro che gli direbbe la verità. Perché svelare un segreto è come avere la luna per cuore. Del suo peregrinare, però, rimangono indizi evidenti che non tutti sanno leggere: un paio di scarpe senza lacci e il ragno che si attacca alla sua bocca. Il naufragio (pp. 20-21). Alla fine di tutto, quando il viaggio sarà terminato – e sarà nel naufragio – si dirà che sappiamo parlare, perché finalmente abbiamo imparato a distaccarci dalle cose. Le parole allora, correranno benevole in nostro soccorso. Parlare è come perdere il controllo della situazione. Mentre alberi e pesci – le cose – passano indifferenti davanti al naufrago. Il motore della storia (pp. 20-21). L’acqua è più scaltra della sete di tutti i bevitori (di cui conosce la vita). Come abbiamo letto altrove, essa un emblema; è, infatti, il principio e la fine della storia (e di ogni storia personale). Almeno così sembrerebbe. O forse, indipendentemente dalle tradizioni culturali e dalle opzioni religiose, è perché essa non ha paura di sé stessa? Il sole (pp. 22-23). Il poeta Ungaretti in una dolina del Piave si isola dalla guerra che lo circonda. E ripensa ai suoi fiumi, che l’hanno formato, scandendo i tempi della sua vita. A Portante invece, novello Ungaretti, nel cercare rimedio al male esistenziale capita di non accorgersi del tramonto del sole. E tuttavia la sua coscienza sofferente ha percepito qualcosa di più tagliente del sole. Che trasforma il sole stesso in una ferita immortale. Campi bagnati (pp. 22-23). L’acqua è centrale nella poesia di Portante, come è centrale nella storia e nella vita dell’uomo. Il diluvio è una condizione permanente. È metafora ed emblema della vita stessa: la persona e i suoi pensieri ne sono parte costitutiva. Ma in fondo al cuore resta il desiderio dell’asciutto, che è ricerca ma anche nostalgia (dolore del ritorno). Ci vorrebbe un pescatore sovrumano – forse il poeta? – per trarre a secco i nuotatori stanchi. Ma anch’egli (e i suoi pensieri) sono fatti di acqua. Trattino (pp. 24-25). L’acqua principio e fine, che o scioglie le sostanze solubili, o impregna i corpi assorbenti, qui diviene sinonimo della sofferenza e dell’angoscia: la condizione della realtà che tutto contiene e tutto smaltisce. E invade la vita e il sentimento del poeta. Ma conserva ancora una sua dignità. Quella che permette alla coscienza di attraversare la finestra tra il prima e il poi, in un viaggio ideale. Di qua la sofferenza del presente, di là la sofferenza causata dalla vista degli ulivi e dei mandorli. In mezzo, come nelle parole, il tratto di congiunzione, che lega (o separa) e nulla esprime, se non il nero della sua grafia, in mezzo al nero (grafico) delle due parole. Il gesto quotidiano, anche quello più gratificante perché saturo di dolcezza, è turbato dalla sofferenza che non si decide a scegliere (o a sciogliere il dilemma). Il presente o il passato? Anche la sera – tratto d’unione tra giorno e notte: realtà e sogno – porta la sua parte di angoscia, che dovrebbe sciogliere l’oblio, ma, in effetti, lo rianima. La lingua (pp. 24-27). Tutto ha origine dall’acqua, anche la lingua (altrove l’acqua è sinonimo di sofferenza: sofferenza che caratterizza tutta la nostra vita). Forse per questo essa è forte più del fuoco. E se la lingua nasce dall’acqua, anche quando essa è fuori dall’acqua, conserva il ricordo delle montagne, degli alberi, delle nuvole, e dei fenomeni che dalle nuvole l’hanno generata. Così le parole, partendo dalle sorgenti, percorrono e pervadono il tutto. Il sale (pp. 26-27). Il poeta si rivolge ai compagni di viaggio (i suoi familiari?), forse più forti e coraggiosi di lui, ma anche più incoscienti, e li sfida a fargli paura col parlargli del suo viaggio. A indicargli la nave con cui sono partiti. Intanto egli rimane con la sua convinzione che tutto è acqua, acqua salata per giunta, generatrice di quel sale che mentre conserva alcuni alimenti non permette alla vita di rinascere. Il ciclomotore (pp. 28-29). Un bosco familiare: quello della partenza o quello della destinazione? Evidentemente i due boschi coincidono nella percezione del poeta. Il primo si confonde col secondo. Ma il richiamo del primo e la consapevolezza del secondo danno origine al rimpianto per la partenza. Sarebbe stato meglio rimanere quello che ero, dov’ero: altro da me stesso. Il ciclomotore che passa lo riporta però al presente (di cui diventa emblema), e pertanto si rivela prezioso (per la sua funzione di richiamo) lungo le stagioni che scorrono. Il travestito (pp. 28-29). La notte profonda è irraggiungibile: un buio totale nella coscienza del poeta. Una somma di notti. A sfogliarle una per una lo spinge la speranza di trovare una ragione a tanto buio, la speranza di trovare uno spiraglio di luce. Ma il buio permane. Allora si cerca un’altra possibilità. Forse anche nella notte – giorno travestito – sarà possibile trovare una ragione al buio persistente, una qualche giustificazione. Ma neanche questa strada porterà risultati. La lettera (pp. 30-31). Come il naufrago affida all’oceano la sua richiesta di aiuto con un messaggio nella bottiglia, così il poeta si fa lui stesso messaggio di salvezza per sé e per l’umanità. La rovina non è solo la morte generale, ma la morte di ogni singolo pensiero, di ogni singolo uomo, di ogni singola comunità. L’acqua incurante della lettera (il poeta) esercita tuttavia la sua funzione vivificante per gli altri esseri viventi. Ma intanto anche la lettera-uomo-messaggio è salva, perché protetta dalla bottiglia. La comunicazione è infatti questo: liberarsi della bottiglia e cadere nelle mani di qualcuno. Cioè viaggiare dall’isola al continente. Pentimento (pp. 30-33). Il simbolismo è evidente, ma resta difficile trovare il parallelo all’albero appesantito dal fogliame. Certamente è il vissuto, una storia tra passato e presente, e che avrà il suo divenire. Forse è la storia di un’emigrazione? Qui si ritrovano chi questa storia l’ha iniziata, e l`ha avviata a compimento, e chi dovrebbe portarla a termine senza il coraggio di interromperla; insieme ai loro discendenti, e a tutte le lusinghe e le conquiste di benessere (materiale e ideale). Uno strano fenomeno però si verifica, e la tovaglia (finzione colorata: illusione o speranza), che dovrebbe ricoprire l’ombra, è ricoperta a sua volta dall’ombra che ne attutisce i colori. La famiglia si anima in una discreta e affettuosa rete di relazioni fatta di parole (sincronìa e diacronìa). Ma non si smorza l’amaro sapore del pentimento (forse sarebbe stato meglio non partire!). La continuità (pp. 32-33). In cielo tutto è in ordine (secondo il suo stile!). Non manca neppure la lama (della ferita? dell’atto sacrificale?) nascosta tra le nuvole. Il sole, la luna, ornamenti del cielo (bellezza, sentimento, giorni che passano), anch’essi finiranno per uccidere. Sono lí per questo. Mentre noi inseguiamo i giorni a rincorrere il cavallo della continuità. Biografia minima (pp. 32-35). Stamattina, aprendo gli occhi sono svaniti i sogni della notte. Illusioni. Ma qualcosa è rimasto vivo. Sono le voci delle diverse consapevolezze che rimbombano nell’anima. Da lì è possibile attingere una certezza. La notte non ingoia mai la sua oscurità. La sofferenza, il buio, il dubbio, sono essi stessi ragioni della vita. Il passante (pp. 34-35). Che il sonno sia la prova generale della morte è quasi un luogo comune. Ma il fiore che si richiude la sera, l’indomani si riapre, ed è più splendente e vivo che mai. Mentre dormiamo, più forte del fiore, l’albero vigila, e quasi ci protegge, accarezzando porte e finestre delle case del villaggio. La paura della morte che egli genera è presenza di vita. Al risveglio, compiaciuto, si mostra come colui che sa fare profitto dei sogni altrui. È una maniera, questa, di salvarci dalla morte che ci tallona e ci insidia. L’albero, che ha metabolizzato la morte, ci inchioda nella vita. Siccità (pp. 34-37). Mondo rovesciato è anche il sentimento del poeta. L’acqua emblema della vita corre verso la sorgente. Non ci sono risposte per l’uomo che vorrebbe guardare avanti. Ma ogni tanto qualcuno si spinge fino al cielo e chiede tregua. Chi riesce a ritrovare l’acqua ne riceve solo un bicchiere da consumare sul posto. Nascita e morte di una tragedia (pp. 36-37). La tragedia è iniziata con una piccola macchia nel cielo. Simile a quella creata da questo mio viaggiare. Realtà e suggestione: immagini. Succede sempre di notte: quando la polvere nera (l’origine della macchia nel cielo: lo smog della fabbrica, il pensiero del viaggio, il buio nell’anima) ricopre le case. Mentre all’interno gli uomini preparano un’altra giornata da vivere. La morte del padre (pp. 38-45) Con questo titolo sono presentate sette poesie, nelle quali appaiono immagini domestiche che rivelano, senza mai nominarla, l’assenza-presenza della figura del padre, dove il simbolismo è meno rigoroso, più automatico e conseguenziale – prevedibile e perciò meno ermetico – in quanto il poeta si accontenta di recuperare la memoria o la reviviscenza degli affetti familiari da oggetti, gesti, e situazioni usuali e reali. Permane tuttavia in fondo alla sua coscienza il senso di un sofferto disadattamento. 1.La casa è vuota, ma è rimasta com’era. Lo scorcio del giardino attraveso la porta aperta, gli attrezzi che lo rianimavano ad ogni stagione, è il quadro di sempre. E ancora lo si potrebbe rianimare se ci fosse il padre. Ma la realtà è ben diversa: ora lo stato di prostrazione del poeta ha fatto crescere (e curvare sotto i suoi frutti) un altro albero in mezzo all’anima. Riecheggia nella memoria la voce del padre, una volta familiare, ora emblema di partenza e di separazione: origine di ogni sofferenza. 2.La fatica dei campi sembra dimenticata, una volta giunti al nord. E così, anche la morte ci trova ingentiliti. Il vero lavoro è quello della fabbica e, se si continua a lavorare la terra, lo si fa per puro piacere. Ma permane tuttavia un senso di amarezza in fondo all’anima. Fatti tutti i conti, è sempre di più quello che si è perduto che quello che si è guadagnato. Un breve soggiorno al sud potrebbe ricrearci... ma fa rimarcare la tristezza. 3.Quando il fiume attraversa la città, sembra aver dimenticato la sua origine: le montagne. Anche il passaggio di stagione può creare una nuova atmosfera che favorisce nuove condizioni di vita. E farci cambiare mentalità. Ogni passaggio presuppone sempre una nuova partenza. 4.La dipartita del padre ha impedito un’ulteriore partenza, interrompendo così il susseguirsi delle tante partenze che hanno caratterizzato la sua vita. La mobilità delle nuvole genera illusorie immagini di vita dove i corpi tuttavia restano separati dalle loro anime. Il bisogno di eternità o la ricerca di una risposta metafisica talvolta spinge qualche densa fumata – una più forte e suggestiva illusione, oppure una più caparbia volontà – ad addentrarsi oltre, nel cielo. Ma anch’essa è destinata a scomparire. 5. Non era questo quello che volevamo? Una casetta al centro di un bel quadretto idilliaco. Ma tra la realtà esteriore e quella interiore c’è un forte contrasto. Nell’anima c’è sempre quell’albero piegato sotto i frutti della partenza. Questa voltà però è altro quello che vuole comunicare. 6.Senza la presenza dell’uomo (il padre) la natura è insensibile all’organizzazione della vita secondo schemi progettuali. Ma anche il poeta resta indifferente dopo la morte del padre. 7. Il sole ordina al nuovo giorno di iniziare a svolgere il suo ufficio. Si tratta di un’altra partenza. Ma a metà percorso, perplesso, si ricorda che in qualche modo egli è debitore verso la notte. Il cielo avverte il disappunto e l’incertezza; mentre intorno nessuno si accorge di nulla. Eppure senza il bagaglio – illusorio vantaggio! – il sole se ne andrebbe leggero e spedito al punto tale che un minimo soffio potrebbe spegnerlo. Questo sbandamento colpisce tutti quelli che troppo presto si liberano del bagaglio culturale accantonato dai padri. La morte del padre vive nella coscienza del poeta. All’origine essa è una data, quella di un avvenimento, un dato storico quindi; invece essa è soprattutto una ferita dell’anima, uno stato, una dimensione dello spirito; e una costante psicologica, perenne generatrice di immagini. È l’eterno presente della coscienza. Le immagini create, e la stessa espressione linguistica di queste poesie, sono un pretesto. Così anche il titolo, che vuole cogliere l’atmosfera del contesto spirituale. La suggestione scaturita dallo stato d’animo, è tutto quello che conta. E viene riproposta nella poesia ermetica, che qui – come altrove in Portante – si focalizza sulla nostalgia della partenza, o sulla sofferenza del ritorno, o del non-ritorno... Anche in questa serie di poesie il titolo è solo una cornice per definire e storicizzare lo stato d’animo. Portante utilizza la prosodia in funzione della semantica; e questa della prammatica. La più ardita e complessa analogia – figura del discorso al servizio della metafora – deve servire a ricreare la situazione esistenziale, trasferendo poi al piano comunicativo i sentimenti (modi di sentire) del poeta. La mancanza dei segni di interpunzione e la sintassi semplificata (paratassi) costituiscono il tentativo di dare una nuova forma all’espressione poetica. Quella dell’immediatezza. E mentre assolvono alla loro funzione sperimentale, creano tuttavia una successione di momenti, di ricordi, di immagini visive, che riproducono il vissuto dell’artista. Perciò la morte del padre più che essere raccontata (o in qualche modo rappresentata) nel tessuto discorsivo del testo poetico, risulta stampata nella coscienza del poeta, attraverso immagini familiari e ardite rappresentazioni metaforiche che intendono mostrare, del poeta, il ripiegamento su sé stesso. Mentre è alla ricerca delle ragioni esistenziali e metafisiche del vivere.

Luigi Casale

Editore di La cenere delle parole