Traduzione da: autore: Wystan H. Auden | editore: Adelphi, 2011 | traduttore: Alessandro Gallenzi | traduzione dall'inglese
Scoprii Auden negli anni Sessanta e subito mi attrasse la sua poesia. In particolare ricordo, dell’antologia pubblicata da Guanda in quegli anni, Musée des beaux-arts, un testo che può essere considerato una dichiarazione di poetica. Mi piaceva anche la sua posizione di intellettuale impegnato (aveva partecipato alla guerra di Spagna). Egli rappresentava un tipo di poeta non comune in area italiana: occhio critico, ironia, attenzione per la realtà anche storica e politica, amore per la tradizione coniugato con sperimentazione di vie nuove. Poi la sua storia personale prese una piega per me incomprensibile: il suo diventare monarchico, per esempio. Ma la mia prima adesione alla sua poetica è rimasta inalterata ed è stata confermata dalla lettura dei suoi saggi più importanti, raccolti nella La mano del tintore (traduzione di Gabriella Fiori, ed. Adelphi).
È in questo libro che troviamo alcune affermazioni preziose per entrare nello spirito della poesia di Auden. Sulla versificazione : Il poeta che scrive in versi «liberi» è come Robinson Crusoe sull’isola deserta: deve fare tutto da sé, cucina, bucato e rammendo. In casi eccezionali e rari, tale virile indipendenza produce qualcosa di originale e significativo, ma più frequentemente il risultato è squallido: lenzuola sporche su un letto disfatto e bottiglie vuote su un pavimento sudicio. E sul contrasto tra la poesia francese, che ha sempre esaltato e esibito con orgoglio la differenza fra se stessa e l’dioma comune e i popoli di lingua inglese, i quali hanno sempre ritenuto che la differenza fra il discorso poetico e il conversare quotidiano dovesse essere ridotta al minimo: sono dichiarazioni importanti anche per apprezzare l’ultimo libro di Auden Grazie, Nebbia.
Il titolo subito muove nel lettore richiami alla produzione poetica di lingua italiana, non solo novecentesca. Per restare dalle mie parti e ai viventi, ho pensato a Giorgio Orelli (A Giovanna in Sinopie, Mondadori 1977) dove una nebbia leggerissima e innocente muta colore nel corso del componimento per diventare inquietante. La nebbia ispira i poeti. Dunque ho aperto il libro con una certa aspettativa: che non è stata delusa. Naturalmente si dovrebbe entrare nel merito dell’originale inglese, per apprezzare le rime, la metrica, il gioco della lingua: ma non è di mia competenza e dunque mi limito, in questa nota, a dare la mia prima impressione su testi tradotti egregiamente da Alessandro Gallenzi.
Poesia discorsiva, argomentativa, epica, civile, quella di W.H.Auden: la deplorazione della tecnologia, delle mostruosità metalliche che sono fonte di pena e sventura della Società/ primo affanno del Vivere Comune (Una maledizione, che fa pensare al Parini); la lode della tradizione, dei maestri: senza di Voi, dice Auden, …non avrei mai composto/ nemmeno il più scadente dei miei versi; la saggezza che emana dalla Ninna nanna cantata al Bimbo grande e l’elogio del Super-Io possente/che ti risparmia così tanti affanni; le canzoni per il Don Chisciotte che sfida i portatori di violenza sulla terra; la Morte che invita alla sua danza sia la signora del Westchester sia il barbone del Bowery. Emerge, da questi testi, l’immagine del poeta moralista e umanista: nel significato alto che hanno queste parole non più di moda.
Per rimanere al nostro Novecento, questa posizione mi ha fatto pensare a Umberto Saba e al suo famoso Quello che resta da fare ai poeti del 1911. Ai poeti resta da fare la poesia onesta. Non quella di chi cerca sfrenatamente l’originalità, senza capire che essere originali significa ritrovare se stessi, ma quella dei ricercatori di verità esteriori o interiori: mi sembra che il grande autore – che, in queste poesie scritte alla fine della sua carriera, tesse le lodi della nebbia Sorella immacolata dello Smog e acerrima nemica della fretta – possa rientrare in questa nobile brigata.
Alberto Nessi