Autore:
Wystan H. Auden | editore: Adelphi, 2011
Pubblicazione:
26 novembre 2011
La mia ultima traduzione, prima di affrontare Grazie, Nebbia di W.H. Auden per Adelphi, era stata Il ratto del ricciolo di Alexander Pope in distici di endecasillabi a rima baciata. Per un traduttore come me, a proprio agio con le forme di poesia più regolari, non poteva quindi esserci passaggio più brusco e impegnativo dal punto di vista linguistico e stilistico.
Nonostante non possano essere inquadrate in schemi metrici convenzionali, le poesie contenute in questa raccolta di Auden, pubblicata nel 1974, l’anno successivo alla sua morte, mettono in evidenza tutta la stupefacente varietà, versatilità e perizia tecnica dell’autore inglese. Accanto ad alcune tra le più alte espressioni della sua poesia sillabico-allitterativa, si possono riscontrare omaggi a forme e generi tradizionali quali l’haiku, l’ottametro giambico, l’albata e l’elegia. Accanto a parole arcaiche o desuete è possibile trovare termini gergali, sbavature linguistiche utilizzate in maniera espressiva e numerose coniazioni verbali, spesso ricavate dalla trasformazione di un sostantivo in verbo.
Grazie, Nebbia rappresenta il punto di arrivo poetico di un autore che amava sperimentare costantemente nuove forme e nuovi linguaggi rivedendo e ritoccando in maniera quasi ossessiva le proprie opere – un autore che verso la fine dei suoi giorni scriveva con l’autorevolezza di un vate e si permetteva licenze poetiche impensabili all’inizio della sua carriera. Si capisce dunque quanto sia stato arduo per me cercare di riprodurre in italiano la voce idiosincratica di questo straordinario poeta, con tutte le sue sfumature più complesse e le sue allusioni più sottili.
Nel tradurre Grazie, Nebbia ho perciò privilegiato, rispetto a un’impossibile adesione a forme e registri dell’originale, la ricerca di una voce poetica credibile, adottando a volte strutture e moduli metrici alternativi e concentrando i miei sforzi sulla precisione lessicale di Auden.
Le prime poesie della raccolta sono risultate per me le più difficili, ma una volta entrato nel linguaggio di Auden, una volta catturato il tono dell’originale, il resto della traduzione si è trasformata, in un certo senso, in una conversazione aperta e amichevole tra due persone di età, culture e paesi diversi. Così come Auden, scrivendo, si rifaceva a modelli sonori della poesia medievale inglese, io traducendo ho riscoperto i ritmi sdruccioli e tronchi della poesia fiorentina del Trecento, compresa quella di Dante, a cui Auden si è spesso ispirato: “E le cime degli alberi, visibili / appena, non stormiscono ma restano / immobili e condensano efficienti / in gocce esatte la Tua umidità.” (da Grazie, Nebbia) “Qui giovani estremisti che progettano / di far saltare in aria un edificio, / lì un poeta accigliato che rovista / tra i ghirigori della sua memoria / per formare una frase dilettevole, / e su in alto girovaghi / che sfrecciano qua e là / nella pancia di enormi / zanzaroni metallici.” (da Notturno).
In ultima analisi, tradurre poesia – specie se si ha a che fare con poeti della grandezza di Auden – è sempre una sfida persa in partenza, ma se non si parte sottomessi e si tenta invece di rivaleggiare, se si risponde all’originalità con l’inventività e non ci si lascia schiacciare dall’inadeguatezza della traduzione, il risultato finale non potrà che riverberare una chiara eco del genio che l’ha generata.