In occasione del centenario della nascita di Bohumil Hrabal le edizioni e/o ripropongono, nella storica veste della Collana praghese, questo particolarissimo romanzo.
È un bambino che parla e che, con il linguaggio disarmante che solo un bambino sa avere, narrando la storia della sua famiglia, dell’adorato zio Pepin col berretto da marinaio sempre a caccia di chellerine, del mite padre Franzin con quell’aurea di tristezza che quasi lo condanna a vivere, della madre superficiale e allegra, eterna signorina, ci spalanca le porte di un mondo tanto reale quanto grottesco, tanto tenero quanto crudele, comico e tragico al tempo stesso.
È un romanzo “di” e “in” movimento: il lettore si trova catapultato su una vera e propria giostra sulla quale saltano e sfilano, accanto a quelli che solo erroneamente potrebbero essere definiti i veri protagonisti della storia, figure – sempre al limite di un grottesco tragicomico – che, fatta la loro comparsa, svaniscono nel nulla ma che, sole, garantiscono alle “storie nella storia” di Hrabal quel collante che ne è al tempo stesso movimento.
Facciamo da subito la conoscenza del parroco, bevitore di vermut e scatenato ballerino (un vero acrobata), del guardiano della fabbrica di birra Vaňátko col fedele cagnolino Trik e l’inseparabile fucile, del macellaio in completo bianco e della moglie, alcolizzata dai lunghi capelli rossi, protagonista di un vero e proprio rito purificatore, di Vlasta, la chellerina preferita da zio Pepin che, tra danze e proposte di matrimonio non perde occasione di stuzzicarlo sul trattato di igiene sessuale del signor Batista per arrivare fino all’ingegner Friedrich, mandato, una volta scoppiata la guerra e requisita la fabbrica di birra, a presidio della stessa. Dai ricordi del bambino emerge poi la figura del nonno, violento e scurrile nei suoi attacchi di ira, e di quegli armadi che, soli, sotto la sua implacabile ascia, riescono a calmarlo quasi fossero sacrifici offerti all’altare di dei di altro tempo. Ma nel mezzo molti altri personaggi ancora.
Ma, come dicevamo, è anche un romanzo "di" movimento. In un percorso quasi catartico, i personaggi - tutti - subiscono una profonda trasformazione.
A partire da Franzin che, quasi paradossalmente, una volta cacciato dalla fabbrica, ormai nazionalizzata, di cui era direttore, inizia a bere birra e mangiare carne e cipolla reinventandosi dei ruoli, sempre poco probabili, da cacciatore di funghi a trasportatore di frutta e verdura e sprigionando quell’entusiasmo e quell’energia di cui non lo pensavamo capace, proprio mentre, invece, zio Pepin smette di bere e di arrabbiarsi perdendo progressivamente insieme alla vista, la vitalità nel gridare a chiunque il suo motto Un soldato austriaco deve solo e soltanto vincere!.
Lo stesso Friedrich, accantonati i progetti di riconversione della fabbrica, inizia a intagliare legno, quasi maniacalmente, per finire poi a lasciarsi cullare assente sul cavallo a dondolo da lui stesso intagliato, in quello spazio nel quale il tempo sembra essersi ormai veramente fermato.
È lo stesso tempo che si è fermato dal quale Pepin, sussurrando Che ne sarà di questo amore?, guarda da ultimo Franzin, andato a trovarlo nella casa di riposo dove, come tutti gli altri vecchi, aspetta di morire, e dove I Milioni di Arlecchino diffuso dalle radio sui muri ci riporta quasi circolarmente all’inizio del romanzo, a quel Franzin trasformato in Arlecchino dalla moglie in burla.
È un romanzo anche profondamente religioso: le salsicce della macellaia vengono descritte come grani di un rosario, lo spinterogeno della Orion come un’ostia consacrata, persino i seni di Vlasta che si schiudono alla vista di Pepin vengono associati a Gesù che risorge dalla tomba e lo stesso Pepin, giunto alla fine, col berretto da marinaio che ormai gli cade sulle orecchie, è un vero e proprio Cristo seduto coronato di spine. Certo, a prima vista dissacrantemente religioso ma forse anche a noi, proprio come a Hrabal, piace pensare che a Dio piacciono i pazzi e gli esaltati.
Fiorelsa Iezzi