Minuetto per chitarra (a venticinque colpi)

Il partigiano Vitomil

Articolo di: Michele Guerra


Il controcanto della Resistenza jugoslava che si sviluppa e dipana tra le pagine del romanzo di Zupan non ha nulla a che vedere con quanto comunemente definiamo “revisionismo" o con i suoi accomodanti sinonimi. È, invece, una tappa fondamentale all’interno della narrazione di quell’epica, esattamente come lo fu l’opera di Giuseppe Fenoglio per la miglior soggettiva della Liberazione nostrana.

Uscito solo nel 1975, dopo che l’autore e protagonista ebbe modo di assaggiare anche le galere di Tito, Minuetto gode del privilegio della distanza. Quella che permette al narratore di coniugare consapevolmente il miglior esistenzialismo europeo con la letteratura americana underground; e a queste sovrapporre poi le memorie critiche della recente Grande Guerra (costante e spesso ironica la presenza del Remarque di Niente di nuovo sul fronte occidentale) quanto la più alta tradizione letteraria italiana, in particolare quella machiavellica e quella dantesca della Comedia, disseminate abilmente lungo tutto l’intreccio.

Un’ombra che incombe non casualmente, quella italiana. Zupan, infatti, fu detenuto nel campo di concentramento fascista di Gonars, in provincia di Udine: ed è a questa ferita originaria che il protagonista lega, in una filiazione psicologica più che politica, la scelta di aderire alla Resistenza da irregolare, allergico alla dottrina del Partito quanto alla semplice disciplina dettata dal cameratismo. L’iniziale dislocazione clandestina di Berk (alias dell’autore) nella capitale Ljubljana e il primo trasferimento verso il fronte sono quindi caratterizzati da un tono amabilmente introspettivo, esegetico, alleggerito con il registro basso/comico della cronaca delle esperienze sessuali del protagonista. L’occupante nazista da cacciare qui non è nulla di più che un’eco remota, causa di una continua attesa, protratta in lunghi quanto improvvisi spostamenti da un villaggio ad un altro.

Il lento emergere della fisionomia del nemico – che Zupan dilaziona all’estremo, costruendo atmosfere quasi beckettiane – è incarnato acusticamente dal crescendo progressivo del rumore delle armi e delle esplosioni nel buio. Quando questi suoni si fanno ormai prossimi e minacciosi, sul limitare delle albe e degli appostamenti, la narrazione si scinde: ad intervallare il pathos interviene la cronaca di una serena vacanza estiva del 1973 in Spagna, durante la quale il protagonista incontra casualmente un ex ufficiale della Wehrmacht, di nome Joseph Bitter. Con questi il nostro si trova ad intraprendere un paradossale rapporto di confronto e analisi sulla natura delle guerre, a cominciare da quella nazista nei Balcani: un dialogo fondato sulla maschera del “turista” che Berk non rimuove né per rivelare che è jugoslavo, né per identificarsi come ex partigiano.

L’abilità dell’autore, da questo momento in poi, è quella di non adagiarsi sulla distanza siderale tra i due piani temporali e di non ridurli ad una semplice alternanza binaria. Anzi, Zupan si permette persino di essere talmente fedele al carattere antieroico del suo personaggio da farci credere in una imminente azione vendicativa del protagonista nei confronti dell’ex militare, come sarebbe ovvio nell’illusione del genere, salvo poi vanificarla con la più banale partenza del signor Bitter e della moglie – da perfetti pensionati tedeschi. Una partenza successiva all’assoluzione con la quale il narratore ci illustra candidamente che lo stesso Bitter non fu mai compreso nelle liste dei criminali di guerra e che anzi rischiò di essere fucilato dopo il fallito attentato ad Hitler del 1944.

Se è quindi fatale che gli ufficiali tedeschi sopravvivano alle guerre che loro stessi possono osservare a posteriori, altrettanto non si può dire dei combattenti della Resistenza, che lontani dal “sacrificio” cui vorrebbe immolarli la retorica, si trovano a morire durante un pessimo agguato sferrato ingenuamente da loro stessi alle truppe naziste, oppure – al culmine del grottesco – a causa di un’arma inceppata, finita nelle mani del giovane inesperto di turno.

Grazie alla poliedrica e metamorfica traduzione di Patrizia Raveggi, Minuetto si propone quindi non solo come una “prima” esemplare nel panorama italiano, ma soprattutto come un alto esempio di quella che potremmo definire una biografia in fieri, capace di oltrepassare il valore di semplice testimonianza stereotipata o di memorialistica postuma – queste sì buone per alimentare ogni fetido revisionismo contemporaneo – per esplicitare invece l’intera complessità di quanti portarono nella Resistenza il proprio retaggio culturale, i propri istinti da modellare, insieme ai contraddittori registri della loro formazione giovanile. E di questo fecero armi letali contro ogni ortodossia successiva.

Editore di Minuetto per chitarra (a venticinque colpi)