Traduzione da: Letteratura americana / Traduzione di Adriana dell'Orto / a cura di Andreina Lombardi Bom
Acclamato unanimemente dai critici come uno dei più grandi romanzi della letteratura americana degli ultimi cinquant’anni, Revolutionay Road di Richard Yates ha viaggiato nel tempo fino ai giorni nostri con quel carico di immortalità e di riscatto che ogni grande romanzo cova dentro di sé. Era il 1961 quando fu pubblicato per la prima volta e Tennessee Williams scrisse «Se nella letteratura americana moderna ci vuole qualcos’altro per fare un capolavoro, non saprei dire cosa». Eppure Yates che aveva gettato le fondamenta della tecnica narrativa del dirty realism americano, rimase durante i trent’anni della sua attività letteraria «uno dei grandi scrittori meno famosi d'America», uno «scrittore per scrittori» come dice Richard Ford nella meravigliosa prefazione.
In Italia fu pubblicato per la prima volta da Bompiani nel 1964 con il titolo I non conformisti, quarant’anni dopo minimum fax, sempre con la traduzione di Adriana dell’Orto rivista da Andreina Lombardi Bom, lo ripubblica prima nella collana minimum classics e ora nella collana I quindici. E succede, proprio come voleva Marco Cassini (complice Klam), che i lettori italiani se ne innamorino. E meno male perché, a detta di Ford, «non conoscere ancora il grande libro di Yates sembra assurdo». Lacuna colmata.
Fin qui un po’ di storia editoriale. La trama del romanzo è abbastanza semplice.
Siamo negli anni ’50, April e Frank Wheeler, coppia della middle-class americana, trascinano la loro frustrazione, sentimentale, genitoriale e professionale, tra Martini, sigarette, amici ficcanaso e vicini da operetta. Di rivoluzionario non gli è rimasto che il nome della strada in cui vivono. April e Frank Wheeler sono innanzitutto due che hanno smesso. Di amarsi, di pensare, di lottare, ma soprattutto di essere «diversi». Troppe rinunce per gli ex abitanti del Village, ora confinati al ruolo di moglie, marito genitore, vicino (modello, ovviamente) nel sobborgo di Revolutionary Hill, il complesso residenziale dalle casette bianche e pastello «invincibilmente allegro». Uno squallore al quale, sopravalutando i propri limiti, pensano di essere immuni perché «ciò che conta è non farsi contaminare […] ricordare chi eri», ma che con inesorabilità finisce per spingerli nel baratro dove piombano quando l’ultimo tentativo di salvezza, il trasloco a Parigi, fallisce.
Gli stereotipi della vita borghese in Yates acquistano una veste agghiacciante, l’abisso diventa un vero buco nero dai bordi taglienti che si apre dal lato oscuro della felicità. Che risucchia con la prepotenza di quelle cose che rasentano il crudele e si negano alla ragione ma che non sono solo istinto. Cose cieche, come il circolare del sangue o il respiro, che governano la forza che ci mantiene vivi. Questo romanzo è grande proprio per questo. Perché Yates, anche se fa sua la vecchia eterna regola «scrivi di ciò che conosci» e replica con puntualità spesso biografica quello che ha scontato in vita, riesce ad andare oltre April, Frank, i Campbell e tutti gli altri. Il ritratto del fallimento dei protagonisti è il ritratto del fallimento del sogno americano e nessuno è immune perché è lo stesso sogno che l’Europa devastata del dopoguerra eredita insieme agli elettrodomestici.
«È come se tutti si fossero tacitamente accordati per vivere in uno stato di perenne illusione. Al diavolo la realtà! Dateci un bel po’ di stradine serpeggianti e di casette dipinte di bianco, rosa e celeste; fateci essere tutti buoni consumatori, fateci avere un bel senso di Appartenenza e allevare i figli in un bagno di sentimentalismo ― papà è un grand’uomo perché guadagna quanto basta per campare, mamma è una gran donna perché è rimasta accanto a papà per tutti questi anni ― e se mai la buona vecchia realtà dovesse venire a galla e farci bu!, ci daremo un gran da fare per fingere che non sia accaduto affatto».
Chiama la tragedia col suo nome, Yates e con approccio da empirista, ce la racconta, dissezionando i suoi personaggi scientificamente e offrendoci le loro vite a pezzi. E quello che non dice resta nell’aria quando chiudi il libro: voi non siete i Wheeler ma chiunque siate, siatelo fino in fondo. Pagare per i propri errori è amaro. Pagare per i rimpianti, insopportabile.
Ana Ciurans