Traduzione da: traduttore: Cristina Vezzaro - Traduzione dal tedesco
I personaggi: un contrabbandiere, il figlio, la moglie, la sorella. I servizi segreti, le guardie di confine e pochi altri. Questa la trama: un contrabbandiere approfitta dell’embargo imposto all’Iraq per “arricchirsi” muovendosi nell’area minata tra Iraq, Turchia e Iran e portando da oltre confine merce introvabile in patria. Avvicinato da un misterioso personaggio dei servizi segreti viene messo in guardia contro le attività del figlio tredicenne, che frequenta una scuola islamica ed è in odore di terrorismo. Incredulo, non adotta subito le misure che potrebbero impedire la tragedia e finisce per perdere le tracce del figlio che invano proverà, tra ricerche e allucinazioni, a rintracciare.
Quando l’editore mi contattò per tradurre “Terra di confine” mi spaventai all’idea di affrontare un autore di padre curdo e madre tedesca in una lingua (il tedesco) che pensavo impregnata di espressioni e termini che non avrei conosciuto. Ma mi resi presto conto che non sarebbe stato così. Quella di Fatah è una lingua sicura, scarna, che si muove di periodo in periodo con una stretta selezione di termini solidi. Ma di forte impatto. E la forza espressiva delle descrizioni ricrea per noi paesaggi sconosciuti che pure ci sembrano familiari, situazioni a noi estranee che pure ci risultano vicine come spesso è per i libri che sanno descrivere microcosmi universali.
“Terra di confine” – sottotitolo dell'edizione italiana di Isbn Edizioni: “Romanzo iracheno” – è uno di quei libri che dopo l’11 settembre si leggono diversamente. Per la necessità di interagire con mondi così diversi e cercare di comprenderli. La sensazione è che le nuove storie di immigrazione europea produrranno sempre più autori che, come Fatah, porteranno vicino a noi, scritti nelle nostre lingue, mondi a noi lontani. Fatah si astiene da giudizi morali sul conflitto e si limita a presentarci una terra e abitudini che pesca dai ricordi dei suoi viaggi e dalla sua conoscenza di un mondo che pure non è la sua patria. I suoi personaggi non hanno nome e la distanza che tiene rispetto a loro li rende ancora più universali. Le loro esperienze sono reali, concrete, ma al contempo metaforiche. Il contrabbandiere percorre i campi minati, solo lui conosce il sentiero per attraversarli, e ogni impercettibile cambiamento dovrà allora, nella personale superstizione che ha sviluppato, avere un significato preciso per lui. Passa così il tempo a scovare e interpretare segnali, mutamenti, diverse percezioni della realtà che lo possano condurre sano e salvo attraverso il campo minato così come attraverso la vita. Infatti, finito nelle mani dei soldati al confine, sarà forse la sua capacità di interpretare i gesti e i pensieri dei suoi torturatori a salvargli la vita. Il campo minato come metafora di vita e la terra di confine come situazione esistenziale.
La critica tedesca ha rilevato alcune imprecisioni stilistiche e confusioni compositive. Il libro apre su un non meglio identificato nipote che sembra una figura centrale (forse è sua la prospettiva dell’intero romanzo) ma di cui si perdono presto le tracce. Ancora, aggiungo io, l’assenza di nomi attribuiti ai personaggi ha complicato enormemente la distinzione delle parentele, ad esempio delle due sorelle del contrabbandiere che vengono sempre indicate come “la sorella”. E infine, per l’edizione italiana, vi è un rischio di incomprensione quando si parla di prima e seconda guerra, che ora come ora risulta immediato interpretare come prima guerra del Golfo e invasione americana del 2003, mentre in realtà, essendo l’originale tedesco del 2001, sono la guerra con l’Iran e la prima guerra del Golfo.
Nonostante questi dettagli, tuttavia, “Terra di confine” è un ottimo romanzo d’esordio. Insignito del premio letterario “aspekte”, l’autore, per il quale la critica tedesca ha scomodato nomi come Kafka, Sartre e Buzzati, mantiene viva la tensione fino all’ultima riga.
246 pagine nell’edizione italiana non sono tantissime ma nemmeno poche. Per entrare nella scrittura di un autore ci vuole un po’ ma è anche vero che se è nelle tue corde poi fai fatica ad uscirne. Raccogliere la sfida di una scena di tortura (per tradurre la quale mi ci è voluta un’adeguata preparazione), di una scena d’amore, di dettagliate descrizioni di campi minati, di scarsissimi dialoghi e pagine e pagine di paesaggi e umori e pensieri è stato talmente appagante che alla fine del libro ho rimpianto il lavoro concluso.
Per questo libro (è solo il terzo per me) sono anche riuscita a collaborare ottimamente con la redazione della casa editrice nella revisione finale delle bozze, e condividere con i primi lettori e critici del lavoro italiano dubbi e soluzioni è stato un vero privilegio.
Cristina Vezzaro