Intervista a Benedetta Vassallo, editore presso 8tto Edizioni

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 6 agosto 2025

Laureata in storia dell’arte, dopo una breve incursione nel mondo delle gallerie milanesi si lascia andare all’amore totalizzante per la parola e lavora per Harlequin Mondadori prima e Harper Collins poi ricoprendo i ruoli di editor, copywriter e responsabile di collana. Nel 2019 fonda insieme a tre socie 8tto Edizioni. Un suo intervento critico è stato pubblicato in Lucia Rodocanachi: le carte, la vita a cura di Franco Contorbia (Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2006). Scrive poesie e qualche volta le pubblica, ma non è una cosa seria...

Benedetta Vassallo, lei è editore della casa editrice 8tto edizioni. Cosa ha orientato la sua scelta a pubblicare un volume sulla traduttrice Lucia Rodocanachi?

La storia del carteggio di Rodocanachi e Bianchi è strettamente connessa alla storia della mia famiglia. Guglielmo Bianchi era il mio prozio e quelle lettere mi sono state mostrate dal fratello di mio padre proprio quando ero vicina alla laurea in Lettere Moderne. Non conoscevo la figura di Rodocanachi, ma leggendo l’epistolario e immergendomi in quel mondo, mi sono resa conto che si trattava di una testimonianza preziosa, un tesoro che non potevo tenere nascosto. L’intero carteggio è diventato così l’oggetto della mia tesi di laurea con il professor Franco Contorbia. Venticinque anni dopo, grazie anche alle mie socie che hanno approvato il progetto, 8tto Edizioni ha deciso di pubblicare una selezione di quelle lettere con un ricco apparato critico che ne contestualizzasse il significato sottolineandone così l’importanza nel panorama culturale e letterario dei primi del Novecento.

Perché vi siete interessate così tanto da approfondire questo personaggio?

Rodocanachi è stata testimone attenta e curiosa di un’epoca irripetibile. Il salotto letterario di cui lei era musa e motore creativo, nella villetta rosa di Arenzano che divideva con il marito, il pittore Paolo Rodocanachi, era frequentato dai più importanti esponenti dell’intellighenzia di inizio Novecento: artisti come i fratelli Saccorotti, Emanuele Rambaldi, poeti come Montale e Sbarbaro, scrittori e intellettuali, tra gli altri Vittorini, Bobi Bazlen, Henry Furst, Gadda, Carlo Bo, Angelo Barile. E con tutti loro Lucia teneva una corrispondenza febbrile, generosa, mai banale. Purtroppo solo Bianchi, Angelo Barile e Carlo Bo hanno conservato le sue lettere, che rappresentano una porta d’accesso privilegiata a un mondo che conosciamo molto bene, ma da una sola prospettiva: quella dell’arte, dell’opera letteraria. Lucia invece ci fa entrare dalla porta sul retro e ci mostra il dietro le quinte. E poi la sua scrittura, così tagliente, ricercata, ironica, intelligente rende questa lettura divertente, leggera e allo stesso tempo profonda.

Lucia Rodocanachi – négresse inconnue – era un’intellettuale ben inserita nel milieu artistico. Oltre a tradurre, Lucia era anche scrittrice?


Lucia non è mai stata scrittrice, non in senso letterale almeno, non ha mai pubblicato nulla. Sono proprio le lettere a costituire il canale privilegiato attraverso cui accedere alla complessa sfera emotiva della “Sévigné del nostro secolo”, come amava chiamarla Montale. Per Lucia, priva di qualsiasi opera che la rappresenti, le lettere costituiscono l’opera assoluta, e contengono in nuce non solo motivi ed emozioni, ma anche spunti e soluzioni stilistiche complete. Le epistole sono il territorio più fertile dove coltivare quella scrittura dell'intimo che trova proprio in questo carteggio momenti di altissima espressione poetica ed emotiva.

Quali lettere di Lucia Rodocanachi avete scelto di pubblicare?

Le 34 lettere selezionate per lasciare traccia di quello che fu il carteggio fra Lucia Rodocanachi e Guglielmo Bianchi coprono un periodo di dieci anni compreso tra il 1937 e il 1947. In realtà il loro rapporto epistolare ebbe inizio nel 1935 e proseguì fino al 1956 ma, dopo il 1947, quelle che ci restano sono le lettere di Bianchi, poiché solo Lucia, da quel momento, conservò le missive del suo corrispondente. La selezione termina idealmente con la prima lettera di Bianchi a Rodocanachi dopo il suo ritorno in Europa dal lungo e volontario esilio in Argentina, che simbolicamente completa il lungo percorso, storico e umano, dei due protagonisti. La ricostruzione di un carteggio a due voci rappresenta un caso quasi unico nel contesto dei rapporti epistolari di Lucia Rodocanachi – come abbiamo detto, Bianchi fu uno dei pochi amici a conservare le sue lettere - ed è per questo che costituisce una testimonianza irripetibile di quella che fu la parabola artistica e personale di entrambi in un momento storico cruciale. Queste lettere parlano un linguaggio esclusivo, nascosto, a volte difficilmente accessibile, il cui cifrario privilegiato è spesso quello della letteratura: i continui rimandi a opere, personaggi, autori – ma anche riferimenti a fatti e persone appartenenti alla sfera privata dei due corrispondenti – rendono la lettura di questo carteggio complessa ma appassionante.

L’attività editoriale di Lucia Rodocanachi testimonia e delinea la figura del traduttore in quell’epoca, molto diversa da oggi. Da qui l’appellativo négresse inconnue?

Come ricorda Giuseppe Marcenaro, che è stato profondo conoscitore della figura e dell’opera di Rodocanachi, è stato l’incontro con Vittorini a segnare un punto di svolta in questo senso: «L’avvio dell’attività di traduttrice muta la vita di Lucia: si trova coinvolta in un turbine, cadenzato dalla necessità di consegnare il lavoro e dal sempre difficile recupero dei compensi. Gli amici scrittori, pagatori non troppo solleciti – dipendenti anch’essi da distratti editori – inventano la négresse inconnue». Durante la guerra e negli anni immediatamente successivi, Rodocanachi avvia e a mano a mano intensifica la sua attività di traduttrice a cottimo per quelli che lei stessa definiva i suoi negrieri: Vittorini, Montale, Bo, Sbarbaro, Gadda. La natura di quelle collaborazioni la svela Montale in una lettera a Lucia del 9 maggio 1942 nella quale fa riferimento alla pubblicazione di Green Mansions di Hudson che il poeta voleva proporre a Einaudi: «Si potrebbe tradurlo insieme [...]. Si potrebbe fare così: tradurlo per conto nostro, senza parlarne a nessuno, e a cose fatte vendere il ms a Einaudi o a qualche altro, s'intende col mio nome» (Genova, collezione privata di Giuseppe Marcenaro). Un vero lavoro d'equipe, quindi, anche se a svantaggio della négresse inconnue, forzatamente relegata alla clandestinità. La traduzione letterale di Lucia si trasforma sotto il tocco del rifacitore genialmente infedele in un testo, che, pur peccando di qualche imperfezione, soggiace a quella lingua più grande che è la lingua della poesia. Niente di più lontano, quindi, da una mera trasposizione meccanica, ma un vero e proprio atto creativo. Proprio quell'irrefrenabile creatività nel reinterpretare il testo secondo il proprio timbro poetico provocherà qualche contrattempo e porterà al naufragio del progetto. Così scriveva il poeta a Lucia il 10 giugno 1943: «Sto correggendo Green Mansions, ma è una faccenda lunga. Il mio ritmo è così diverso che finisco per rifar tutto, senza tua colpa. Bisognerà studiare un’altra forma di collaborazione» (Genova, collezione privata di Giuseppe Marcenaro). Il manoscritto vedrà la luce solo nel 1987 per i tipi di Einaudi col titolo, scelto dallo stesso Montale, La vita nella foresta.

Il forte legame di amicizia con Guglielmo Bianchi, grande viaggiatore, il naufrago come lo definisce Lucia scherzosamente, è forse dovuta a un ideale che a lei è mancato, cioè il fatto di viaggiare?

Più volte nel suo carteggio con Bianchi, Lucia si definisce una Marta, la santa protettrice delle casalinghe di evangelica memoria. Sicuramente il divario tra le sue aspirazioni e attitudini – culturali e letterarie – e la quotidianità di una casa da mandare avanti, faccende e incombenze domestiche decisamente più prosaiche e un marito-artista che con la sua personalità ingombrante le faceva da scudo, sì, ma anche da ombra, ha contribuito a generare in lei quell’irrequietezza, quella brama di conoscere che l’hanno resa una lettrice onnivora. L’attività di traduttrice, potersi immergere nelle parole degli altri e dare voce ad autori che nell’atmosfera asfittica e oppressiva di regime non riuscivano a trovarla, ha contribuito ad alleviare questo senso di inadeguatezza. Attraverso la scrittura degli altri Rodocanachi ha potuto viaggiare e conoscere il mondo. In molte delle lettere spedite a Bianchi durante il suo esilio argentino Lucia svela il desiderio di entrare in contatto con la letteratura del posto. Purtroppo l’indole pigra e autocommiserante del suo amico di penna le darà poca soddisfazione da questo punto di vista.

Chi erano gli ospiti più abituali di Lucia Rodocanachi nella sua casetta rosa di Arenzano?

Durante il convegno di studi dedicato alla poesia di Angelo Barile, tenutosi ad Albisola nel maggio del 1977, Lucia Rodocanachi usa per la prima volta l’espressione «amici poeti degli anni Trenta» per riferirsi a quell’eclettico e stimolante gruppo di intellettuali che frequentava Villa De Singe. Erano due gli appuntamenti fissi ospitati nella casetta rosa – il giorno di Santo Stefano e il Lunedì dell’Angelo – che vedevano riuniti, nella casa-giardino di Paolo e Lucia Rodocanachi in Arenzano, tutti gli amici più fedeli e che consentivano spesso ad alcuni di essi che vivevano lontani da Genova, Eugenio Montale, Bobi Bazlen, Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, di ritrovarsi in una sorta di comunità cenacolo. Ospiti immancabili erano i poeti Angelo Barile, Camillo Sbarbaro, Adriano Grande, fino alla sua partenza per Roma nel 1934, e naturalmente Guglielmo Bianchi; gli artisti Oscar e Fausto Saccorotti e il pittore Emanuele Rambaldi, che già frequentavano lo studio di Paolo Rodocanachi in via Montaldo a Genova, dove Montale, seduto su un vecchio sofà, scrisse e limò alcuni Ossi di seppia. E poi un numero indefinito di comparse: Raffaello Prati, trentino, traduttore di Rilke; Henry Furst, scrittore e traduttore nato in America, educato a Yale, passato a Oxford, battezzato cattolico a Parigi, laureato a Padova e sua moglie, la scrittrice Orsola Nemi, la prima donna a pubblicare sulla rivista Letteratura, traduttrice di Flaubert, Baudelaire, Maupassant; Gianna Manzini, autrice sperimentale e raffinata; la magnetica Elena De Bosis Vivante, pittrice, musa di Sbarbaro, corrispondente per la BBC negli anni della guerra, non necessariamente in quest’ordine.

Indubbiamente queste lettere non fanno onore alla reputazione di Vittorini e altri autori, com’è stata accolta dalla stampa e dall’editoria la notizia delle molte traduzioni frutto del genio di un’altra persona, una donna coltissima, Lucia Rodocanachi?

Quello che ci proponiamo di fare con questo contributo è proprio accendere i riflettori su una figura immeritatamente caduta nell’oblio che ha fatto da collante a una generazione di artisti, intellettuali, poeti e scrittori che hanno attraversato gli anni più bui della storia del Novecento e che in quel buio avrebbero potuto perdersi definitivamente. Ma le qualità di Rodocanachi non sono solo quelle di musa ispiratrice, di dinamo irrequieta. La sua attività di traduttrice per altri e in proprio – ricordiamo che nel 1943 firmò per Bompiani la versione italiana di Die Elixiere des Teufels di Hoffmann, nel dopoguerra collaborò con importanti case editrici quali Garzanti, Longanesi, Frassinelli ed Einaudi e nel 1955 siglò per i Gettoni la traduzione italiana del Ritratto di giovane artista di Dylan Thomas - testimoniano un uso sapiente del linguaggio che ha trovato la sua più cristallina e potente espressione proprio nelle lettere. E poi, come ricorda la professoressa Virna Brigatti nel suo contributo critico all’epistolario: «Da che è stato individuato, il ruolo di Lucia Rodocanachi è diventato infatti importante oggetto di ricerca e valorizzazione, mettendo sempre più in evidenza quanto sia fondamentale, affinché una società letteraria si sviluppi e cresca, il lavoro di coloro che stanno nell’ombra, accanto o dietro i grandi nomi: i molti, a volte addirittura anonimi, altre volte invece semplicemente in disparte, che hanno però contribuito in termini essenziali a fare in modo che la nostra storia culturale abbia avuto una fisionomia piuttosto che un’altra».

Fantasticando su quello che Lucia avrebbe potuto fare per appropriarsi di un’esistenza migliore, è mai emerso dalle lettere un suo desiderio di partire per l’Argentina e raggiungere Guglielmo?

Voglio rispondere, congedandomi, citando le parole di Lucia: «Caro Bianchi, avrei voluto un indirizzo più sicuro di quello della sua torre per dirle che Sestante è arrivato, che l’ho letto e riletto, che vorrei parlarne con lei, che “grondo solitudine” in mezzo alle follie della season balneare, e che quindi mi conservo fedele ai suoi consigli e meritevole della sua amicizia, di cui lei non mi dà prova. Ma come l’ostrica allo scoglio, la invidio proprio per esser scomparso senza lasciar traccia nel grande oceano destinazione ignota. Certo qualche Ritz o qualche Palace, direbbe la Lola. E certo la gente che lei vedrà, sarà più consolante dei mandrogni in tenuta balneare che cerco di non vedere. Sepolcri imbiancati forse, ma neppure i mandrogni calcheranno sentieri più eccelsi in fatto di virtù. Affido dunque all’oceano il messaggio nella bottiglia e forse un giorno, tra un mese, tra un anno, un’altra bottiglia o una goletta o un “barco bestia” alla deriva mi porterà notizie di Bianchi.» Un desiderio lacerante, ma latente e inespresso proprio perché irrealizzabile.