Un gruista in Paradiso

Argomento: Nord
Pubblicazione: 6 agosto 2025

Paasilinna, sicuri che sia un umorista?

Un autore evergreen, Arto Paasilinna, che anche dopo la morte (15 ottobre 2018) continua a godere di grande successo con una serie di ‘inediti’ in italiano, frutto della fede incrollabile dell’editrice Iperborea nel grattare fino in fondo il barile della sua opera, tra romanzi, novelle, scritti vari. Indiscutibile il suo successo internazionale, con primati paragonabili in valori assoluti solo a quelli di Mika Waltari.

“Che volete, lui è l’apripista”, diceva un caustico Kari Hotakainen una dozzina di anni fa in occasione di una celebrazione della letteratura finlandese all’interno di una fiera internazionale del libro. “Mentre noi gli andiamo dietro – chiudeva sconsolato – chi in trattore, chi a piedi.” Anche qui ci prendeva, Hotakainen, lui destinato (solo il primo di una lista) a fargli da successore in nome dell’ “umorismo”. Una bandiera, quella dell’umorismo finlandese, sventolata sui pennoni delle fiere del libro, da Francoforte a Torino. Era ed è una bandiera bianca. Perché nonostante tanti investimenti, come quelli della FILI (che da anni finanziano le traduzioni) l’unico che abbia nel tempo mantenuto un successo altalenante ma costante è stato lui, Arto Paasilinna da Kittilä.

Trentacinque romanzi, tradotti in oltre 40 lingue, più di otto milioni di copie vendute. La sua fortuna, anche in Italia, comincia con L’anno della lepre, romanzo tradotto da Iperborea come tutti gli altri a venire.

Ma come si spiega l’enorme popolarità dell’omone di Kittilä, in Francia, in Italia, in Europa e nel mondo? E perché una così scarsa considerazione in patria, soprattutto nel mondo intellettuale e sulla stampa ufficiale?

Nel dare notizia della sua morte, Helsinki Sanomat, la bibbia della borghesia di Helsinki, lo presenta così: “Scomparso il maestro dell’umorismo grottesco”. In Italia, sulla bibbia concordata della borghesia intellettuale italiana (Repubblica) si legge in una breve nota che è morto l’autore dell’Anno della lepre, “romanzo ecologico”. Un tono simile troviamo sul catechismo della Confindustria, dove viene definito inventore di un genere: quello “umoristico - ecologico” (Addio allo scrittore Paasilinna, su “Il Sole 24 ore”, 16 ottobre 2018.)

Anche questa etichetta, l’ecologismo, in Italia nasce sempre sulle quarte di copertina della sua casa editrice: “Nato a Kittilä, ex guardaboschi, ex giornalista, ex poeta, è autore-culto in Finlandia…” Di quanti artisti, nella presentazione, avete letto che sono ex fornai, ex muratori, ex giardinieri? Capita mai di leggere, in una quarta di Jack Kerouac, che da ragazzo faceva il lavapiatti? O che Jack London era stato pescatore clandestino di ostriche? Chi nasce in Lapponia ha la stessa probabilità di fare il guardaboschi che un ragazzo napoletano di fare il pizzaiolo.

Però quella invenzione di Emilia Lodigiani gli resta appiccicata addosso, e generazioni di commentatori o reporter da weekend continueranno a presentarlo così, uno nato nei boschi e lì rimasto.

Di persona, era piacevolissimo: incontrandolo in occasione di qualche evento letterario o di una premiazione, sembrava fare di tutto per assomigliare a certi protagonisti dei suoi romanzi: bizzarro, impegnato in gesti apparentemente incongrui, con tic privi di uno scopo evidente.

Nei suoi romanzi ha raccontato di gente che organizza un suicidio collettivo, o lancia giavellotti dal fondo di un pozzo, di personaggi che sovente fanno mestieri ormai in disuso, come quello del Mugnaio, che esistono ormai più nei libri di storia, o di fiabe. Gente che spesso si abbandona a sbornie colossali.

Come faceva lui, finendo con imbarazzo sui rotocalchi da parrucchiera, snobbato con fastidio dalla stampa seria. Come se quel suo problema, l’alcolismo, non fosse condiviso dal mondo reale, da tante famiglie finlandesi.

Sono state proprio certe sue anomalie ad affascinare noi del mondo di sotto. Ambienti e vicende che ci si mostrano in una luce antica, estranea alle motivazioni psicologiche del dramma borghese, fin dalle prime righe. Penso a un romanzo esemplare della sua filosofia, tutt’altro che ecologista: Il migliore amico dell’orso (1995, trad. it. di N. Rainò, Milano, Iperborea 2008.)

In cui mette in atto un ribaltamento della realtà che, storicamente, leghiamo alla tradizione del carnevale, a una diversa percezione del mondo, un mondo secondo, che in un suo mitico medioevo portava a rovesciare ruoli e personaggi, abbassando quel che è alto e sublimando quel che è basso. Che trasforma il reverendo Huuskonen, pastore luterano, in un eretico mangiavescovi, e un orso di nome Satanasso in un devoto credente, come nelle diableries e nelle favole antiche. I numeri spettacolari dell’orso che fa capriole nella chiesa di Nummenpää attirando un numero record di fedeli (“senza dimenticare comunque che sull’altare era proibito”), le cerimonie liturgiche interconfessionali sulle navi da crociera, con Satanasso che si prosterna in direzione della Mecca e mugola come un muezzin, quindi l’opera di apostolato nelle bettole del porto di Odessa: a noi sembrano episodi discesi direttamente dal medievale risus paschalis. “Durante i giorni di Pasqua la tradizione permetteva che si ridesse in chiesa. Il predicatore dal pulpito si permetteva scherzi licenziosi e storielle allegre per suscitare tra i parrocchiani il riso, inteso come gioiosa rinascita dopo i giorni di afflizione e di digiuno” (M. Bachtin, Estetica e romanzo, a cura di Clara Strada Janovič, Torino, Einaudi 1979, p. 435.)

Il mondo delle pratiche religiose, in uno dei paesi più laici del mondo, rientra nella ‘medievalizzazione’ operata da Paasilinna. Nel romanzo Un gruista in paradiso (Auta armias 1989, trad. it. di N. Rainò, Milano, Iperborea 2025) il rovesciamento dei ruoli raggiunge il suo apice, perché stavolta è Dio Onnipotente stesso che sceglie un uomo modesto, un gruista, come suo sostituto per un anno sabbatico. Un gruista non a caso. “Gli piaceva lavorare per proprio conto, indisturbato, un po’ più in alto degli altri, ma senza avere nessuno sotto di sé. Era un uomo di ampie vedute.” (p.20)

Nello svolgimento delle sue alte mansioni, Pirjeri si impegna a spostare il Paradiso in una chiesa di legno in Finlandia, la chiesa di Kerimäki, un enorme edificio realmente esistente le cui misure sembrano del tutto sproporzionate rispetto alla scarsa popolazione del Savo meridionale, regione di laghi e boschi immensi in cui fu edificata verso la metà del XIX secolo. Un paradiso, niente da eccepire.

Una volta realizzato il trasloco, e insediatesi le sfere angeliche con l’enorme mole di faldoni della burocrazia celeste, gli spazi giganteschi dell’edificio sacro non sono utilizzati per cerimonie sacre, ma diventano il teatro di una rivoluzionaria trasformazione, molto finlandese, della gestione del movimento delle anime: la sua digitalizzazione.

Ma una volta installati i terminali, e avviato il lavoro di addestramento informatico degli angeli, nel nuovo paradiso di Kerimäki irrompe l’eterno nemico. Il diavolo. Che come sappiamo è sempre un passo avanti nel padroneggiare ogni genere di congegni, anche i più complessi, che non a caso siamo soliti definire ‘diavolerie’. La gestione dati dei cinquemila angeli risulta bloccata, per colpa di un virus informatico estremamente pericoloso.

“Risultò impossibile compilare qualsiasi lista di peccati. Una moltitudine di assassini, stupratori, torturatori e malfattori di ogni risma risultarono del tutto purgati delle loro colpe e dichiarati idonei al paradiso. In compenso il macchinario attribuiva atrocità rivoltanti e crimini neri come la notte a carico dei giusti. Centinaia di migliaia di poveri cristiani gentili e irreprensibili, secondo il pro¬cessore dovevano finire dritti filati all’inferno. La contabilità celeste finì nel caos più totale.” (p.151)

Che c’è di meglio del diavolo per incarnare il rovesciamento dei valori? Nelle diableries dei misteri medievali, e nelle favole, il diavolo incarna la santità alla rovescia, il ‘basso’ materiale e corporeo. Niente di terrificante, a dire il vero: in Rabelais, per esempio, Epistemone di ritorno dall’inferno assicurava che “i diavoli erano allegri compagni” F. Rabelais, Gargantua e Pantagruel, ed. it. a cura di Mario Bonfantini, Torino, Einaudi, 1993, p. 290. E tale risulta il Nemico in più di una delle sue manifestazioni nel Gruista in paradiso: qui il diavolo assume diverse sembianze, tende agguati informatici, si spaccia per un’antica divinità finnica, il dio Ahti, o si nasconde in un villaggio di pescatori in Groenlandia, sempre en travesti, come è normale per la sua natura carnevalesca: “il diavolo non aveva l’aspetto che la gente si immaginava: né coda, né corna, e nemmeno lo zoccolo al posto del piede. Indossava un abito gessato, ghette gialle e un mantello rosso sulle spal¬le.” (p.122) Roba da fumetto americano, un Mandrake iperboreo.

Il mistero del grande successo dei suoi romanzi nel mondo di sotto credo che sia legato a questi sotterranei rimandi a un mondo culturale non tipicamente nordico. Dovremmo domandarci se le sue storie ‘apparentemente’ bizzarre piacciano soprattutto a noi mediterranei (non a caso in primis nella patria di Rabelais) non solo perché ci portano in una realtà lontana nello spazio, nel Grande Nord, ma perché ci fanno ritrovare qualcosa di lontano nel tempo. Un qualcosa che ci appartiene, e che perciò amiamo. Ci fanno riprovare sotto quella maschera carnevalesca le tracce di una tradizione letteraria e una cultura popolare che è un nostro patrimonio ma con cui abbiamo perso in parte i contatti. Qualcosa come un profumo delle storie di Apuleio, dei misteri medievali, della tradizione picaresca. Non che manchino scrittori umoristici e grotteschi nella cultura francese e italiana moderna: ma questi li sentiamo forse troppo legati a una borghese urbanità, o ci sentiamo troppo inibiti per aggredire e mettere alla berlina una morale pubblica, una fede, ormai piuttosto deboli, tanto da essere quasi esclusivamente materia di talk show televisivi. Un grottesco da camera, come lo definiva M. Bachtin (L’opera di Rabelais e la cultura popolare, [1965] trad. it. di Mili Romano, Torino, Einaudi, 1979, p. 45), che non osa spaziare nei territori estremi toccati dalla fantasia di Paasilinna, un giullare che ha avuto il coraggio di irridere la morale finlandese coi suoi residui di puritanesimo. È quel Medioevo l’oggetto primario del suo riso. In una conversazione che ebbi con Paasilinna molti anni fa gli capitò di citare (per caso?) Boccaccio. Ma se si vuole cercare un padre a certi rovesciamenti carnascialeschi di Paasilinna bisogna andare nell’amata terra di Francia, e rovistare nel gros chaudron di Rabelais. Da cui ha tratto la capacità formidabile di utilizzare i materiali più vari, le cianfrusaglie più viete, i modi di dire e i proverbi più desueti. J. Michelet (Histoire de France, citato in Bachtin, L’opera di Rabelais, p. 3) definiva così quest’arte del riciclaggio del grande scrittore: “Rabelais ha raccolto direttamente dalla bocca degli stolti e dei buffoni la saggezza dell’elemento popolare dei vecchi patois, dei detti, dei proverbi, delle farse goliardiche. È attraverso tale buffoneria che si manifesta in tutta la sua grandezza il genio del secolo e la sua forza profetica.”

Nei romanzi di Paasilinna non mancano mai i personaggi portatori di qualche patois: parlate dell’Ostrobotnia, o del Savo, o del mondo Sámi, regioni periferiche rispetto al finlandese standard della capitale, e perciò rappresentanti di una realtà periferica ma non illetterata. Al contrario, sono spesso portatori di saggezza, di conoscenze arcaiche, come Heikki-Barbon nel Gruista in paradiso, un angelo che aleggia nel suo luogo d’origine a fare da guida, mediatore tra il mondo dei vivi e quello dei morti, sorta di beneandante che parla un dialetto arcaico a momenti incomprensibile, reso nella traduzione italiana con un volgare anticheggiante che cerca di restituire (non senza ironia) il sentimento di arcano che l’angelo porta con sé. Eccolo riversare fiumi di saggezza ad Abdia, un profeta minore che accompagna il Dio supplente a visionare Hytermä, possibile nuova sede del Paradiso, raccontandogli di certe antiche tecniche della tessitura nascoste in un manufatto:

“Vedi qui, Abdia, un tempo le maggior donne intrecciavano ogni tipo di cintura con queste tavolette di legno. Duro lavoro era, as¬sai gravoso. Per prima cosa, il filo dell’ordito si formava a partire da tavolette di legno fis¬se alla parete. Poi i fili li si faceva passare nei pertusi delle tavolette. Sull’una il filo si inserìa da un lato, sulla compagna dal lato contrario. Intendi, Abdia? Quando avevi otto tavolette con quattro pertusi, s’avea bisogno - aspetta un attimo, mi lasci cogitare - sì, di trenta¬due fili! Quando la cinturina era da tessere, la trama s’alternava con l’ordito. L’orditura è così... Tanta forza nei ditini di quelle vecchie per tenerla in tensione. E la trama dovea esser ben tesa per aprire il nuovo passo per l’ordito! Non è maraviglioso? Ma le tavolette poi dove¬an essere in giusto loco in ogni fase dell’opra. E poi rotare le si facea da manca a dritta, come costì. È qui che gli orditi s’avviticchiano. Ed è così che il nastrino prende forma. In Carelia codeste cinturine le nomavan ‘trecce’, ma qui da noi son le ‘code di topo’. Provala, Abdia, vedi che effetto ti fa in mano!» (p.226)

Sarà per questo suo ravanare nella memoria antica, mi viene da pensare, che in Finlandia gli intellettuali valutano Paasilinna con sorrisetti di condiscendenza, e la stampa lo relega nella nicchia dell’“umorismo grottesco”, come a mitigare l’effetto delle sue frecciate.

Il tempo dovrà aiutarci a rileggere questo scrittore, fin troppo banalmente etichettato dalla grande catena di montaggio di agenzie ed editori. Augurandoci che invece di esaltarlo come un esilarante ‘filosofo ecologista’ o denigrarlo come un simpatico favolista un po’ ripetitivo qualcuno, di un’altra generazione, riesca a parlarci soprattutto dello ‘scrittore’: come scriveva, ma anche cosa leggeva, quali erano le sue fonti e i suoi modelli. Di questo si ragiona sempre troppo poco.

Se è vero che la letteratura finlandese è storicamente fin troppo inchiodata ad un suo storico compito ‘educativo’ del popolo dei lettori, al carattere nazionale-didattico della scrittura, allora Paasilinna è un outsider che i modelli se li è cercati da sé, non tanto tra i boschi della sua Lapponia, quanto tra le pagine di una letteratura alta, e antica, che fa di lui un grande scrittore europeo.

Helsinki, 20 luglio 2025