Chi inizia a leggere A modo nostro crede di trovarsi di fronte a un noir in salsa franco-cinese, e invece si trova ben presto risucchiato in tutt’altro.
Il libro di Chen He – scrittore-imprenditore dalla carriera avventurosa, che lo ha portato dalla natia Wenzhou, nella Cina del sud, fino a Toronto, dove ora risiede, passando per l’Albania – non solo non è un noir e nemmeno una storia di crimine, bensì un romanzo profondamente cinese e al contempo globale il cui filo conduttore è il tema dell’immigrazione cinese verso l’Europa. Il libro supera i confini già a partire dal titolo originale – Hong bai hei, letteralmente Il rosso, il bianco e il nero, in cui echi stendhaliani si sovrappongono al simbolismo cinese – e ancor di più nell’ambientazione che attraversa Chinatown parigina, Wenzhou, costa aquitana, Pechino, Hangzhou, Fujian, Atene, Tirana, Salento, entroterra tunisino, piana del Qinghai…
La mia priorità di traduttore è stata proprio quella di salvaguardare la componente transnazionale, in primis riproducendo, e talvolta creando da zero, l’intreccio di parlate che lo anima: cinese, francese, italiano e albanese, ma anche il dialetto di Wenzhou, varietà quasi indecifrabile per i compatrioti di altre province e molto presente nel romanzo. Come fare per metterlo in risalto? Bisogna sapere che la scrittura cinese permette di comprendere il significato dei caratteri al di là della loro realizzazione fonetica, che può variare a seconda della provenienza del parlante. Nella resa di certe espressioni regionali, usare il pinyin (la trascrizione ufficiale del mandarino) avrebbe appiattito la lingua sulla pronuncia standard, offuscandone la natura locale. In mancanza di una trascrizione ufficiale del wenzhouese, quindi, ho seguito quella elaborata da un istituto cinese di dialettologia: così quello che in mandarino è un pancai, rapa a disco volante tipica di Wenzhou, è diventato un boetshe, e l’appellativo “piccolo tisico” affettuosamente rivolto al protagonista Xie Qing è dontsyleong, non tongzilao. Il risultato è a tratti ostico e forse linguisticamente impreciso, ma almeno suggerisce la presenza di un’altra Cina, che nella storia – e nella realtà – si affianca e spesso si contrappone alla Cina Pechino-centrica che ci presentano i media. Eppure è un’altra Cina che ci è molto vicina, perché da Wenzhou proviene la stragrande maggioranza dei cinesi d’Europa.
Un altro punto su cui mi sono soffermato è la resa dello stile delle diverse parti del romanzo. La narrazione procede a capitoli alternati su due piani temporali: uno parte dall’arrivo di Xie Qing a Parigi nel 1993, l’altro ripercorre la sua vita dai primi anni ’60 in poi focalizzandosi gradualmente sulla moglie Yang Hong, fino a confluire verso la fine. Nel “presente” una narrazione cruda e asciutta si nutre degli stilemi del romanzo di investigazione, nel “passato” il tono si fa più nostalgico e amaro. La traduzione è chiamata a riprodurre questo scarto attraverso scelte lessicali e sintattiche mirate a riprodurre, nel modo più efficace possibile, l’atmosfera specifica che l’autore intende evocare in ciascun passaggio, differenziando le strategie di resa ed evitando di livellare toni e registro.
La traduzione è stata anche frutto di negoziazioni intense e a tratti dolorose. Ho approfittato a lungo della pazienza di Chen He, con mail chilometriche o intorno a un tavolo, per correggere annotazioni poco accurate sull’Europa, comprendere i riferimenti alla cultura locale, decifrare le riscritture della realtà (come nel caso dell’attrice albanese “Mila”, nome di fantasia attribuito a una persona reale, protagonista a sua insaputa di un’intrigante trama secondaria), nonché reintegrare porzioni espunte dal manoscritto per autocensura o elaborate in un secondo momento. Una discussione accesa, invece, si è concentrata sui massicci tagli operati da Sellerio, con il consenso dell’autore, nell’intento di snellire e rendere più efficace il prodotto finale.
A modo nostro è anche il risultato di un’operazione pionieristica, l’acquisto dei diritti mondiali di un romanzo cinese da parte di un editore italiano. Un’iniziativa coraggiosa che, speriamo, permetterà ai lettori italiani – e nel 2020, grazie ad Albin Michel, anche a quelli francesi – di conoscere non solo i meccanismi dell’emigrazione cinese, ma anche un esempio di scrittura globale che, nel panorama della narrativa cinese tradotta, costituisce ancora una rarità.