Il romanzo di Ersi Sotiròpoulos, che si incentra sulla figura di Costantino Kavafis in uno dei suoi pochi viaggi fuori dalla sua amata-odiata Alessandria, ha al suo interno decine di riferimenti, a volte espliciti, a volte invece piú nascosti, alle opere del poeta. Riferimenti che danno sostanza e fondamento, e accrescono il piacere della lettura di questo bell’esempio di biofiction.
Della vita pubblica di Kavafis si sa abbastanza – ottima la biografia di Robert Liddell, uscita in Gran Bretagna nel 1976, tradotta in Italia da Marina Lavagnini per le edizioni Crocetti nel 1998, ma ora introvabile; numerosi, anche se spesso frammentari, gli epistolari pubblicati – ma poco, invece, si sa della sua vita interiore, dell’intimo rovello, oltre a quanto, ovviamente, a ogni lettore è lecito inferire dalla lettura delle sue poesie.
Per questo il romanzo di Ersi Sotiròpoulos è cosí interessante: colma in modo originale e personale una lacuna importante nella costruzione ideale del personaggio “Kavafis”. E la colma nell’unico modo possibile: integrando liberamente, e secondo il sentire dell’autrice, la biografia “in pubblico”. Ma il lavoro di Ersi Sotiròpoulos, nella sua libertà, trova un appoggio importante proprio nell’opera poetica che, letta e interiorizzata, viene sfruttata, giustamente e a piene mani, per creare un nuovo, e per molti versi inedito, Kavafis.
Ecco quindi che l’insofferenza del poeta per Alessandria e il suo provincialismo asfissiante è rievocata attraverso citazioni, esplicite o implicite, delle diverse stesure della poesia “La città” e di altre composizioni, come “Muri”; la dimensione nascosta dell’amore omosessuale ritorna nei riferimenti a “Come tutto è iniziato”, “Per le scale”, “Una notte”; la scoperta della propria sensualità e del desiderio si trovano nella velata rievocazione di “Il paese della noia”; l’orgoglio e il compiacimento per la bellezza maschile si colgono nelle citazioni nascoste di “La tomba di Iasis” (poesia che, tra l’altro, piacque e fu tradotta anche da Pier Paolo Pasolini), o “Giorni del 1908”; il timore e, al tempo stesso, la fascinazione per la vecchiaia si intravedono attraverso la ripresa dei temi di “Lo specchio nell’ingresso”, o di “Un vecchio”; la passione travolgente e al tempo stesso romantica spicca anche grazie alla forza tranquilla di poesie come “Occhi grigi”, che pervade le pagine che Ersi Sotiròpoulos dedica all’innamoramento per il misterioso ballerino russo.
L’elenco potrebbe continuare, ma è evidente che il piacere maggiore lo potrà cogliere il lettore quando, leggendo le pagine di questo libro, sentirà riecheggiare dentro di sé le parole del grande poeta in una fittissima rete di rimandi.
Mi sento quindi di consigliare, proprio per accrescere il godimento, di leggere, o di rileggere in contemporanea al romanzo di Ersi Sotiròpoulos, le poesie del grande “alessandrino”. Molte sono le edizioni disponibili, in gran parte di ottima qualità. Tra queste, mi permetto di segnalare quella che ho curato per Garzanti: Costantino Kavafis, Poesie, traduzione, introduzione e note di Andrea Di Gregorio, Garzanti, Milano 2017.
Infine, a margine, un paio di chiarimenti che potranno essere utili.
Il fratello di Costantino Kavafis si chiamava Ioannis, ma da tutti veniva chiamato John perché l’azienda della famiglia Kavafis (o, all’inglese, Cavafy) aveva succursali in Gran Bretagna e, proprio in Gran Bretagna, sia Kavafis sia i suoi fratelli vissero molti anni durante l’infanzia e la giovinezza. Tutti in famiglia, del resto, sapevano bene l’inglese e, tra l’altro, Marguerite Yourcenar, che lo conobbe negli anni della maturità, ricorda che il poeta parlava greco con l’accento di Oxford.
Ho chiamato “Costantinopoli” la città che oggi si chiama Istanbul perché, fino al 1930, mantenne ufficialmente l’antico nome con cui, tuttora, la chiamano i greci.