Questo l’ho già detto altrove, e confesso che mi copio e incollo, perché c’entra con il fatto che Eugenia, la mia umanissima editrice, mi chiede di uscire allo scoperto: «Scrivo in prima persona perché, malgrado l’invisibilità che per un traduttore è regola, paradossalmente non c’è niente di più visibile che esporsi esprimendo con le proprie parole quelle che qualcun altro ha scelto ad arte per comunicare storie e idee. Poi, mettere il proprio nome accanto al suo, firmando, come un impostore, qualcosa che i lettori attribuiranno all’autore e solo a lui, nella maggior parte dei casi ignorando perfino l’idea di una versione originale. Provate a chiedere in giro». Ora, con NN almeno la parte dove dico che molti ignoreranno perfino l’esistenza di una versione originale non vale più perché, unico nel suo genere in questo paese dove perfino i recensori di libri ne dimenticano allegramente l’esistenza, chiede proprio al traduttore di avere anche una specie di faccia senza la maschera degli autori che traduce, e dire un po’ la sua, a ruota libera.
E allora veniamo alla nostra Rita Indiana che avete appena finito di leggere: vi siete accorti che era un romanzo e non una voce che raccontava? Se non ve ne siete accorti ve lo dico io: era un romanzo. Perché si fa presto a dire colloquiale. Il colloquiale è la narrazione più studiata e costruita che esista per poter apparire naturale come se si stesse ascoltando una voce. Provate a trascrivere un dialogo registrato: suona che più artificiale non si può. Altrimenti saremmo tutti Hemingway, che nei dialoghi non lo batteva nessuno. È lì che il traduttore investe le ore: a ricreare anche lui, nella lingua d’arrivo, cotanta naturalezza. Adesso la sparo grossa, ma ho l’impressione che sia mille volte più facile, chessò, tradurre Dickens, anche se ti consumi le dita sul dizionario, che non questi romanzi concisi, apparentemente laconici, quasi elementari, che quando dai loro una prima occhiata ti sembrano facili. Hai tempo per ricrederti.
Più che parlare del mio incontro con Indiana in qualità di traduttrice, vorrei farlo come lettrice, che è quello che in fondo, anzi in principio, siamo tutti, richiamando la vostra attenzione su alcune meraviglie che spuntano come inattese infiorescenze da un racconto volutamente piano, giocato sul registro dello straniamento. Sono quelle immagini, similitudini e aggettivazioni così sorprendenti che poi, mentre uno traduce, si ferma e se le rigira in bocca come deliziose caramelle, compiacendosi di essere riuscito a restituirle senza danno nella propria lingua. Sì, lo so che lo avete appena letto, ma vediamo se sono rimaste impresse anche a voi: “Momò era la più brutta. Con un naso dove si sarebbero potute parcheggiare due carriole e una Honda 70”; “certi occhiali da sole dietro ai quali si sarebbe potuto nascondere un ippopotamo”; “e disse il nome di mio zio masticando petali di rosa”; “sulla sua dentatura bianchissima si sarebbe potuto appendere un cartellone pubblicitario”; “ci fece ridere come due scoiattoli che avessero preso la scossa”; “era così bella che per strada gli uomini le disegnavano fiori nell’aria con la bocca”; “il sassofono suona come un elefante che scende per lo scarico di un gabinetto a cento chilometri all’ora”; “estirpò da Marlene i cinque pappagalli gonorroici che le occupavano la mente”; “appoggiò il capo sulla sua spalla e per un istante le fusa del frigorifero intonarono un bolero di quelli vecchi che parlano di palme e di sentieri”; “con un cuore enorme ma di pietra, sul quale i nomi della gente cui si affezionava restavano incisi per sempre, ma tutti gli altri, me compresa, rimbalzavamo sul freddo granito con un rumorino di biglie rotte”; “lui sorrise e lì dentro c’era tanto spazio che mi venne voglia di traslocare nella sua bocca”…
Metafore degne di Rita Indiana, sì proprio lei. C’è una perversa soddisfazione quando non si trovano paragoni che calzino del tutto e ci piace fantasticare che l’autore sia magari il primo di un canone che nel suo universo letterario non c’è ancora. O meglio: di un canone bric à brac, messo insieme con frammenti, e talvolta macerie, di tradizioni e di maestri ormai un po’ imbalsamati dalla fama o maldestramente imitati. Invece lei, Rita Indiana – e basterebbe il nome – è molto pop, in tutti i sensi, ma soprattutto nel senso della pop art, che esalta e rivisita gli scarti del reale e dell’immaginario. C’è la musica lì dentro – con nomi e cognomi – la pubblicità, la tivù, marche di prodotti del supermercato, enumerazioni caotiche come liste della spesa, il dozzinale, insomma (Manuel Puig). Ma c’è anche il reale meraviglioso caraibico (quindi Alejo Carpentier e, per una volta, non García Márquez), con i suoi piccoli miracoli triviali. Terra a terra e surreale al tempo stesso – basterebbero quelle scritte al neon sulla fronte di Zia Celia – potremmo coniare per Rita Indiana il canone del trash meraviglioso. Che ne dite?
Infine, per riprendere gli abiti del traduttore volevo aggiungere solo una cosetta. Io, in genere, sono per il foregnizing (o come diavolo si scrive), ma la crew di NN – Sarah Bonuomo, Fabio Cremonesi ed Eugenia – ha suggerito il domesticating: avvicinare il testo al lettore, facilitargli le cose quando alcuni termini propri della cultura dell’autore annebbierebbero un po’ il significato di un’intera frase. Hanno sicuramente ragione loro – e non la prof che sono, prestata alla traduzione – perché così non avete dovuto soffermarvi su una parola che non vi diceva granché, ma sappiate, con beneficio di inventario, che i pesci rossi erano tilapias, e l’ostrogoto, papiamento. Ecco, ora potete andarli a cercare sul dizionario.