Aloma

Argomento: Romanzo
Pubblicazione: 3 marzo 2019

Tradurre i romanzi di una autrice di statura culturale e di ricchezza espressiva come Mercè Rodoreda non è soltanto una sfida che, come sempre, il traduttore è immancabilmente destinato a perdere, a causa della pratica impossibilità di disporre nella lingua di arrivo degli stessi registri linguistici messi in opera dallo scrittore nella lingua di partenza; è anche, e soprattutto, un impegno del traduttore – consapevole dei suoi inevitabili limiti e dunque della caducità del suo lavoro – a contribuire, con risultati sempre discutibili, a esporsi a rischi che vanno in ogni caso affrontati, alla circolazione delle opere dell'ingegno al di fuori dello spazio in cui sono state pensate ed elaborate, perché ne possano fruire anche i lettori di altra lingua non in grado di accedere all'originale.

Il vecchio detto che tradurre è impossibile ma necessario non vale solo nel caso che le due lingue siano strutturalmente distanti, ma anche quando si tratti di modalità appartenenti allo stesso ceppo, in larga misura comparabili e compatibili, come il catalano e l'italiano, dal punto di vista del sedimento storico che ha presieduto alla loro formazione. Perché il traduttore non è mai destinato a misurarsi con «una» lingua – che comunque dovrà conoscere perfettamente nelle sue caratteristiche costitutive – ma con «la» lingua di quel determinato autore e di quel determinato testo.

Nel caso specifico, la difficoltà principale nel tradurre la Rodoreda non sta nel trasporre nel modo migliore possibile il discorso originario, quanto nell'individuare le sfumature di quel discorso: l'autrice non adotta quasi mai la lingua d'uso, ma la modula in funzione del personaggio narrante. E questo implica la necessità per il traduttore di trovare nelle pieghe della propria consapevolezza linguistica, modalità espressive analoghe: ma mai identiche. Il peggior torto che possa essere fatto all'autore (e di riflesso al lettore secondo) è di tradurre alla lettera il suo discorso – e non di reperire nella propria competenza sintagmi o catene testuali che comunichino al suo lettore le stesse sensazioni ed emozioni (o quasi) che il testo di partenza ha saputo comunicare al lettore primitivo. È indubbio che il rischio di scadere se non nel ridicolo, certo nell'improprio, è sempre in agguato. E questo ancor più nel caso della Rodoreda, i cui romanzi sono in buona parte pseudo-diari della protagonista, con interventi sporadici dell'autrice: e le protagoniste sono – tranne nel caso di Giardino sul mare – donne di limitata cultura, a volte poco più che alfabetizzate, che usano – o meglio, per le quali l'autrice mette in campo – una lingua scarsamente articolata dal punto di vista stilistico, ma ricca di espressioni colloquiali – anche con venature locali – intraducibili alla lettera, senza cadere nel risibile.

Nel caso della Rodoreda, dunque, per il traduttore la difficoltà più rilevante sta nella scelta – la più oculata possibile – di espressioni della lingua di arrivo che dicano, certo, quel che l'autrice ha voluto dire (e mai, dico mai, altro) ma in forme proprie del linguaggio colloquiale di arrivo, cioè che risultino familiari e comprensibili al lettore della traduzione. Nel caso di Aloma, il problema permane, anche se in misura diversa che negli altri romanzi della Rodoreda. Aloma è una donna semplice, non istruita ma abbastanza alfabetizzata, lettrice appassionata di romanzi rosa e che manifesta spesso la tendenza ad usarne la lingua e in una certa misura ad adottare gli atteggiamenti delle sue eroine anche nella condotta privata e nelle relazioni con gli altri personaggi. Ma non si tratta di uno stile narrativo, il suo, compattamente riconducibile ai modelli, bensì di uno stile variegato e composito, in cui talvolta prevale una modalità semi-alta, altre volte la dominante si accosta più nitidamente al linguaggio corrente. E non di rado la miscela varia di intensità in un verso o nell'altro, a seconda che la narratrice Aloma riferisca suoi pensieri e sue riflessioni o riporti quelli del fratello, della cognata, del nipotino, dell'amante. Di questa miscela, delle sue variazioni, il traduttore deve tener conto e deve rendere conto al suo lettore. Anche se sa bene che la sua traduzione, come ogni traduzione, è destinata – al contrario dell'originale – a invecchiare ineluttabilmente e a essere prima o poi sostituita.