Ci sono libri che si amano, libri che si odiano. E libri che si invidiano a chi li ha scritti. L’invidia è un sentimento temibile, corrosivo e inossidabile: ti scava dentro come uno stillicidio, goccia a goccia a goccia…
Con questo libro è stata invidia a prima vista. La vendetta del traduttore mi ha folgorato sulla via di una grande libreria parigina. Fra milioni di tomi, stava incollato a una parete, quasi crocifisso a un sostegno di lamiera. Insieme a pochi altri, quella posizione privilegiata eppure sofferta indicava lo status privilegiato di "consiglio di lettura". Come a dire: «Basta, questa non è carta stampata qualunque.»
Ma io lo sapevo già. Ancora prima di aprirlo, ancor prima di notare il discreto striscione sotto il quale stavano appesi i consigli di lettura e la fascetta rossa intorno al volume. quel titolo mi ha calamitato, colpito, lasciata a bocca aperta. Ho capito subito di cosa si trattava: un romanzo intelligente e colto, ma anche avvincente, fitto di colpi di scena, allusioni, spiazzamenti. E ben altro.
La vendetta del traduttore, infatti, e lo dico senza tema di smentite, è un riscatto collettivo. È l'antro dentro il quale si nascondono milioni e milioni di parole taciute dai traduttori nei confronti dei libri che si trovano per le mani. Il traduttore è creatura silenziosa e umbratile. È il guardone della letteratura, che assiste implacabilmente passivo all'incontro fra lo scrittore e il suo lettore. Di nascosto, il più nascosto possibile: la traduzione deve essere trasparente, invisibile. La migliore possibile è là dove il traduttore riesce a immedesimarsi nell'autore al punto da farlo scrivere come avrebbe scritto se avesse scritto nella lingua in cui il traduttore lo conduce. Sarà pure un bisticcio di parole, ma è proprio così. Se non che, immedesimandosi - o meglio, mettendo lo scrittore nelle condizioni di scrivere in una lingua che non è la sua -, il traduttore è costretto a sparire. Questa invisibilità è anche un privilegio, certo. Stare nascosti ha i suoi vantaggi. Se non che, ogni tanto questo privilegio porta con sé un grano di frustrazione. Anche di più di un grano, talora. Perché noi traduttori non traduciamo testi perfetti. Mai. Anzi di più: talvolta il testo che abbiamo per le mani non ci convince. Qua e là. Non ci piace. Nel complesso. Soprattutto ne vediamo i difetti con necessaria e spietata lucidità: tradurre non è come leggere. È quasi l'opposto. Si scava nel testo, lo si snuda. E la prima cosa che ci viene fuori sono sempre, immancabilmente, i difetti. Le stonature. Le incongruenze.
Così, tante volte ci capita di metterci le mani nei capelli per conto terzi. Però non possiamo fare nulla, perché siamo invisibili. Trasparenti. Non proprio nulla, ecco. Qualche volta, e qui lo dico e qui lo nego, noi traduttori, le mani invece che nei capelli le mettiamo dentro il testo. Ma poco. Appena appena. Perché il testo deve (dovrebbe) restare quello che è, non è nostro. Noi lo traghettiamo solo.
Brice Matthieussent ha fatto quello che qualunque traduttore è tentato di fare una, mille volte, ma non lo fa mai: riscrivere, manipolare, buttare nei cestini. Eppure, il risultato che la sua vendetta raggiunge non è distruzione. Anzi. È inventiva, novità, fonte di stupore. E, per me, di invidia lacerante. Lo invidio tremendamente. Per due motivi. Primo, per essersi preso quelle libertà che per noi traduttori sono una chimera. Secondo, per aver scritto un libro sfavillante.
Però, a ben pensarci, anche lui potrebbe invidiare me. Perché in fondo l'unico modo che avevo per esorcizzare l'invidia, anzi cacciarla via, era tradurre il suo libro. Ho solo un po' paura della sua prossima mossa.