Hushed Voices, “voci sommesse”: è il titolo originale di questo primo romanzo di Munmun Ghosh, giornalista e editor. Le voci sono quelle dei trentanove personaggi che incontriamo nel libro. Sommesse, perché appartengono a chi, da sempre, è relegato ai margini della società. A ognuna di queste voci è dedicato un capitolo, e ogni personaggio racconta in prima persona la propria storia, spesso legandosi a quella successiva. Ciò che le unisce è il fatto di essere tutte voci di pendolari: ed è a loro, «a tutti i pendolari del mondo», che l’autrice dedica il romanzo.
Il treno è un mezzo che affascina per «efficienza, puntualità e velocità»; per alcune persone è il mezzo di trasporto per recarsi al lavoro, per altre è esso stesso il luogo di lavoro. In Gente di Mumbai incontriamo una schiera di mendicanti, suonatori, venditori di accessori, ma anche ladri, che svolgono la loro attività proprio sui treni. Durante il viaggio sui binari si parla con gli amici, si ascolta la musica, si scambiano confidenze. Il treno è il luogo dove possono accadere cose belle, una nascita, ma anche brutte, una rapina. Il treno, però, è soprattutto libertà, la stessa che attrae dalle campagne così tante persone verso Mumbai, la grande città, che seduce con la promessa di una vita migliore, rivelandosi invece spesso crudele, corrotta e violenta.
Gente di Mumbai è un viaggio attraverso le strade, le stazioni sempre affollate, i quartieri a luci rosse, gli slum, gli ospedali. Possiamo sentire rumori e suoni: auto, urla di venditori, colonne sonore di film bollywoodiani, lingue diverse, preghiere. Sentiamo odori – profumi speziati, puzza di urina e spazzatura – vediamo colori di sari, sgargianti per le donne di ceto medio-inferiore, pastello per quelle di ceto superiore.
Nel linguaggio e nello stile della Ghosh si respira una commistione di colori e tensioni diverse. Il suo è un inglese molto pulito, di un’autrice laureata in letteratura inglese che parla inglese quotidianamente. Il suo stile è a volte aspro, la sintassi spezzata e si ritaglia di volta in volta sul personaggio a cui il capitolo è dedicato. Il linguaggio diventa a tratti violento, basso, volgare, mentre in altre occasioni è aulico, letterario, con metafore e similitudini, anche insolite e originali: «La stazione inquieta, i binari fiancheggiati da rifiuti, edificio dopo edificio in una vicinanza indecente, spazzatura che riempie tutti gli spazi vuoti in spazi concreti, saline e poi distese di verde lucente e immense cucchiaiate di cielo da scavare e gustare – la città lentamente sparisce dalla mia vista».
Mumbai, città caotica, è anche luogo dai forti contrasti. È stranamente possibile trovarvi un po’ di tranquillità e intimità, all’ombra di un grande albero in un elegante quartiere residenziale, per esempio. È caos e quiete, sacro e profano, è amore e violenza, modernità e tradizione.
Tradurre questo libro non è stato facile: le difficoltà sono soprattutto nel cogliere il significato di termini e idiomatismi appartenenti alla cultura indiana, introvabili nei dizionari. L’aiuto dell’autrice è stato perciò fondamentale. I numerosi termini hindi e marathi, indicanti soprattutto cibo e capi di abbigliamento, li ho riportati in un glossario.
Nonostante la descrizione della povertà, non bisogna pensare in alcun modo che Gente di Mumbai sia un romanzo triste o pessimista. È al contrario un libro carico di speranze per il futuro, in un’India che sta cambiando, che da Paese colonizzato sta diventando protagonista del proprio destino. Dai pensieri e dai discorsi dei personaggi traspare un senso d’ottimismo: da quelli di Viraat, convinto che presto in India «nessuno resterà povero a lungo», a quelli di Manisha, per la quale Mumbai è una città che mantiene ciò che promette, a Sita, fiduciosa che un giorno diventerà madre, perché la vita è «piena di svolte inaspettate e magiche».