Com’è facile immaginare, già il titolo avrebbe dovuto mettermi sull’avviso. Anche la mia editor l’aveva detto. Tradurre questo romanzo avrebbe comportato un’intensa attività di ricerca terminologica. E così è stato. Nicholas Drayson, studioso di zoologia e di storia naturale, ha attinto alla gamma praticamente inesauribile di specie volatili che popolano l’Africa orientale per la sua tenerissima – e originale – storia d’amore. Iperonimi a non finire di specie di volatili soprattutto mai visti ne’ mai sentiti nominare: “Nettarinia testablu”, “gruccione petto cannella”, “cuculo smeraldino africano”, “amadina gola tagliata”, “succiacapre dal vessillo”, “tortora dal semicollare”, “numida dal ciuffo”, “pigliamosche del paradiso”, solo per citare gli esemplari più curiosi e affascinanti.
Non essendo mai stata in Kenya e avendo a malapena visto una decina delle specie citate nel romanzo, che superano abbondantemente le centocinquanta, mi sono avvalsa dell’aiuto di un esperto di cui era impossibile farne a meno, e anche assai paziente, “birdwatcher” (debitamente ringraziato in colophon) che, qualche anno fa, ha avuto occasione di visitare i luoghi in cui si svolge la storia. Grazie a questa persona, e a un ottimo database su internet, è stato possibile dare un nome comune scientificamente attestato a tutte le diverse specie.
La sfida, tuttavia, non si è esaurita alla ricerca tassonomica. Il romanzo è ricco di descrizioni altamente accurate: Drayson ha infatti vissuto in Kenya per del tempo. Cito solo il caso più singolare, quello del “turaco azzurro gigante”, un uccello variopinto di rara bellezza, di cui, a un certo punto del romanzo, viene addirittura riportato l’inconfondibile canto. Con l’aiuto di internet, e di “YouTube” in particolare, ho potuto ascoltare direttamente e appurare che sì, era vero, il canto del turaco somiglia a: «Toc. Toc. Toc».
Drayson ha disseminato nel suo libro tutta una serie di termini in falso swahili che non comparivano su nessun dizionario, cartaceo o elettronico. Ho avuto il sospetto che si trattasse di un qualche dialetto bantu, ma dopo aver consultato una scrupolosa africanista (anche lei debitamente ringraziata in colophon) e un madrelingua, ho avuto la certezza assoluta che quei termini fossero da attribuirsi alla licenza poetica dell’autore. Si tratta in effetti di un romanzo, non dimentichiamolo, che cita tipologie di volatili come se ne potrebbero incontrare in un saggio sugli animali tropicali.
Al di là della fase di ricerca terminologica, che è stata la parte di traduzione più impegnativa e anche una fase essenziale della traduzione di “Guida agli uccelli dell’Africa orientale”, quello che mi ha colpito – e che spero di aver restituito – di questo romanzo è stata la spensierata leggerezza a livello sia stilistico sia narrativo, una leggerezza che, però, badate bene, è soltanto apparente: questo dolce romanzo riesce a mettere in luce, in maniera più o meno esplicita, due aspetti lontani ma che è sempre opportuno mettere in luce e forse è anche in questo aspetto che bisogna trovare una chiave di lettura, voluta dall’autore stesso: le meraviglie e gli orrori di un angolo d’Africa.