Hotel world è il primo romanzo che traduco e il mio esordio non poteva essere più fortunato: Ali Smith è un'autrice che io stessa ho proposto a minimum fax, Hotel world è un libro che mi è piaciuto molto e tradurre qualcosa che piace alleggerisce notevolmente la fatica. E infine ‒ cosa molto importante ‒ l'autrice scozzese è stata sempre disponibile a risolvere tutti i miei dubbi e a rispondere via email a tutte le mie domande. Dopo mesi di conoscenza virtuale, lo scorso 20 luglio ho finalmente incontrato di persona Ali in occasione di un reading a Edimburgo. Lei ha letto alcuni brani in inglese e io li ho letti in traduzione. È stata un'esperienza molto bella. E poi è stato decisamente gratificante per me vedere quanto lei sia consapevole della complessità del lavoro del traduttore e come si interessi alle tematiche traduttive pur non essendo lei stessa una traduttrice. Ali Smith lavora sempre a stretto contatto con i suoi traduttori, rispetta profondamente il loro lavoro ‒ più volte l'ha definito "arte". Durante il Book Festival di Edimburgo ha organizzato una serie di incontri proprio sul tema della traduzione letteraria. Anche dal pubblico, interamente composto da non italiani e non addetti ai lavori, sono giunte domande e osservazioni che mi hanno fatto capire quanto interesse ci sia in giro nei confronti del lavoro del traduttore letterario, delle difficoltà che incontra, delle strategie che decide di volta in volta di adottare. Non è semplice dire cosa sia esattamente Hotel world. È qualcosa a metà strada tra un romanzo polifonico e una raccolta di racconti legati da un filo conduttore e che ruotano attorno a un episodio tragico, dato come antefatto: Sara Wilby, ragazza di diciannove anni, giovane promessa del nuoto, muore precipitando nel vano del calapranzi del Global Hotel, dove da pochi giorni lavora come cameriera. Nel primo capitolo sentiamo la voce del fantasma di Sara che cerca disperatamente di trattenere gli ultimi brandelli della sua esistenza terrena. La Sara-fantasma ricorda tutto in maniera confusa ed è la Sara-cadavere che le racconta come sono andate le cose. Corpo e anima, un tempo legati in un'indissolubile unità, ora, dopo la morte, sono due entità distinte e inconciliabili. La protagonista del secondo capitolo è Else, una barbona che chiede l'elemosina a pochi passi dall'entrata del Global Hotel. Nel terzo capitolo siamo in compagnia di Lise, l'ex receptionist dell'hotel, ora costretta a letto da una strana malattia. Nel quarto capitolo facciamo la conoscenza di Penny, una giornalista che si trova a pernottare al Global proprio la sera in cui Lise dà gratuitamente a Else la stanza più lussuosa dell'albergo, e Clare Wilby, sorella di Sara, si traveste da cameriera e demolisce una parete al terzo piano del Global. Il quinto capitolo è un flusso di coscienza: a parlare è Clare che finalmente è riuscita a scoprire come e perché è morta sua sorella. L'ultimo capitolo è una sorta di coda in cui tutti gli elementi apparentemente sconnessi, tutte le comparse di questo caleidoscopico hotel che è il mondo di questo libro ritornano e trovano il loro posto nell'ordito del racconto. Cinque voci per cinque donne, ognuna protagonista della propria storia. Ma la vera protagonista di questo romanzo è la lingua: una girandola di giochi di parole, generi e stili narrativi diversi. Inutile dire che non è stata impresa facilissima tradurre questo libro che Ali Smith stessa ha definito la sera del reading, non so se con modestia o con una certa sfrontatezza, a footnote to Joyce's Ulysses. Dicevo: un'infinità di giochi di parole, polisemie, ecc. che ho dovuto ricreare perché avessero senso in italiano. Qualche esempio: nel terzo capitolo ricorre la frase "Lise was lying in bed". Più che ovvio, visto che Lise è malata e debole e non riesce neanche a stare seduta. Ma a un certo punto il verbo to lie viene letto nella sua accezione di mentire e il narratore si chiede: "was she faking, lying, in bed?". La soluzione che ho trovato è stata questa: ho tradotto "Lise was lying in bed" letteralmente, e ho aggiunto una frase che non c'era nell'originale, cioè "aveva la mente confusa" (cosa vera, tra l'altro) per poter sfruttare la polisemia di mente. Altrove un gioco di parole tra "world" e "word" diventa in italiano "mondo" e "modo di dire". La misteriosa cantilena "remember you must live, remember you most love, remainder you mist leaf", molto importante nell'economia del testo, ha visto tutta una serie di versioni e alla fine è diventata, anche grazie all'aiuto di Martina Testa, "ricorda che devi vivere, ricorda che davi amore, rammenta che nevi mare". Tradurre "to fall in love" con "innamorarsi"? Sembra l'unica scelta possibile di primo acchito, se si vuole evitare un goffissimo calco. Ma che fare se l'espressione appare in un contesto in cui la metafora della "caduta" ha un'importanza fondamentale? Alla fine l'ho reso con "cadere fra le braccia di". E così via. Mi fermo qui, ma potrei andare avanti con altri esempi per pagine e pagine. Solo due volte mi sono arresa e ho spiegato in una nota a piè di pagina l'"intraducibile" gioco di parole dell'originale. Il nome di Else che diventa avverbio: "anything else", "something else" e la polisemia della parola "well": "pozzo", "bene", "in buona salute". Forse ha ragione Italo Calvino: niente è intraducibile, ma in questi due casi non me la sono sentita di stravolgere troppo il testo per salvare il gioco di parole. Comunque, ogni volta che ho apportato delle modifiche al testo, pur ricevendo il benestare dell'autrice, non ho potuto fare a meno di sentire che le mie decisioni avevano un che di arbitrario. Mentre lavoravo a questo libro mi sono posta una serie di domande. Qual è il confine fra traduzione e riscrittura? Esiste un confine netto? Quanto siamo autorizzati ad adattare un testo alla cultura e alla lingua d'arrivo? E soprattutto cosa dobbiamo rendere quando traduciamo? Il senso letterale? I significati sottintesi? Il ritmo della lingua? Una visione del mondo? Tutte queste cose, in teoria, ma in pratica spesso si devono fare delle scelte che sacrificano uno o più livelli di lettura presenti nell'originale. Si parla della cosiddetta "invisibilità" del traduttore ideale. Il miglior complimento che si possa fare a un traduttore è che la sua presenza e il suo lavoro passano del tutto inosservati. Come se il libro fosse stato scritto nella lingua d'arrivo. Ma il paradosso è che il libro non è stato scritto nella lingua d'arrivo e il traduttore, per quanto si sforzi di fare meno rumore possibile, c'è e la sua voce si sente eccome ogni volta che si trova davanti a un bivio (trivio, quadrivio) e deve decidere che strada prendere. Più sono i piani di lettura di un libro (e Hotel world da questo punto di vista è un grattacielo!) maggiori sono le possibili strade che si aprono davanti al traduttore. Questa consapevolezza è spaventosa ed esaltante allo stesso tempo. Quanta libertà! Quanta responsabilità! Ho chiesto ad Ali Smith se non la turba un po' l'idea che un suo libro tradotto non è in fondo del tutto e solo "suo", nonostante ci sia il suo nome in copertina. Lei ha riso e mi ha detto: "Neanche il libro che ho scritto io è del tutto e solo mio, nonostante ci sia il mio nome in copertina".