Credo che chi traduce un'opera letteraria debba porsi con grande umiltà e rispetto dinanzi al testo su cui lavora. L'umiltà dovrebbe derivare dalla coscienza di muoversi entro binari già perfettamente tracciati da qualcun altro, qualcuno che, grazie alla propria immaginazione, ha dato vita a personaggi, creato luoghi e situazioni, inventato intrecci e destini per dare forma a una narrazione che è espressione del proprio talento e della propria personalità. Il rispetto dovrebbe scaturire dalla vicinanza all'opera che si intende tradurre, vicinanza data dall'assidua frequentazione del testo originale da parte del traduttore. Questi, infatti, nella prima fase del proprio lavoro (quella dell'analisi), guarda all'opera da un punto di osservazione privilegiato quando le si rivolge cercando di comprenderla in tutti i suoi aspetti, penetra nei suoi segreti sintattici e lessicali e a volte riesce a intravvedere i meccanismi creativi che l'hanno generata. Quando si osserva qualcosa da tanto vicino si arriva a conoscerla a fondo e la conoscenza suscita ammirazione. Compito del traduttore è trasmettere il testo letterario così compreso e amato sforzandosi di "non omettere, non aggiungere, non adulterare" (come è stato detto con una formula particolarmente felice), eppure con la consapevolezza di essere continuamente chiamati a operare delle scelte per "ricreare" il testo nella lingua d'arrivo. E' infatti innegabile che la traduzione di un testo letterario non debba soltanto essere ricodificazione di messaggi e passaggio di informazioni da una lingua a un'altra, ma anche e soprattutto riscrittura di un discorso attraverso la traduzione di ciò che esso riesce a fare - oltre che a dire - e la ricomposizione di una continuità che risiede principalmente nel ritmo. Sulla base di tali considerazioni alcuni pensatori hanno voluto rivendicare per la traduzione il carattere di autentica scrittura, strappandola dalla sua posizione subalterna, e si sono spinti a considerare definitivamente superato quel criterio di fedeltà che aveva tradizionalmente ispirato ogni teoria della traduzione. Ha quindi senso parlare ancora di "fedeltà" nella traduzione? E nel caso particolare della traduzione dal cinese, in cui il processo linguistico, formale e stilistico della ricodificazione implica un enorme lavoro di reinvenzione attraverso il codice del metatesto, è opportuno ostinarsi a rimanere aggrappati a questo criterio? Molte traduzioni in lingue occidentali di opere cinesi si sono assai allontanate dall'originale, preoccupandosi certo di mantenere il senso del messaggio iniziale, ma non esitando a piegare il testo alle esigenze della lingua d'arrivo in modo estremamente libero e disinvolto. A me pare invece che, nonostante i problemi caratteristici posti dalla lingua cinese, valga anche nei suoi confronti la pena di preservare il difficile equilibrio fra fedeltà e adattamento, badando a non sacrificare eccessivamente il principio di adeguatezza (la misura in cui il metatesto si confà al prototesto) in nome del principio di accettabilità (la relazione del metatesto con la cultura che lo riceve). Certo, si tratta di una continua sfida, è come camminare su di uno stretto sentiero costeggiato da un lato dal pericolo dell'ottusa trasposizione di espressioni in conflitto con la lingua d'arrivo, e dall'altro da quello di distruggere l'armonia stilistica costruita dall'autore: a ogni passo si rischia di cadere in uno o nell'altro precipizio. Per quanto arduo sia il compito, tuttavia, raccogliere la sfida e portarla a termine significa dare vita a un discorso in cui rieccheggino ancora le peculiarità espressive e culturali del testo di partenza e attraverso il quale si riesca a comunicare al lettore non solo il senso di ciò che l'autore voleva dire, ma anche il tono del suo narrare e, non ultimo, qualcosa degli esiti artistici cui egli era giunto attraverso la specificità dei suoi strumenti linguistici.
Tale tensione verso la fedeltà si scontra, nel caso del cinese, con alcune particolari difficoltà. Basti pensare che la traduzione di un testo cinese in una lingua alfabetica è già di per sé una forma di tremenda mutilazione, poiché cancella necessariamente la sua componente pittorica, l'impatto visivo che si sprigiona in misura diversa da ciascun carattere. Com'è noto, infatti, in cinese ogni sillaba, espressa ideograficamente, sta a indicare un'idea, un concetto istintivamente comprensibile grazie alle indicazioni grafiche che la costituiscono. Nessuna traduzione, tanto per fare un esempio, potrà mai rendere la connotazione vagamente misogina racchiusa nei caratteri du e ji (invidia, gelosia), o in altri vocaboli rappresentanti sentimenti negativi, che sono la combinazione del radicale "donna" ? e di una componente fonetica. Tali allusioni a concetti tipici di una diversa realtà culturale - in questo caso, l'idea che certi sentimenti siano esclusivamente femminili - vanno irrimediabilmente perdute. Inoltre, poiché il cinese è strutturalmente molto diverso dalle lingue del ceppo indoeuropeo, la sua traduzione rende spesso necessario un vero e proprio ribaltamento della frase di partenza. E' ovvio che sia molto più difficile rimanere fedeli all'originale nella traduzione fra lingue che possiedono categorie grammaticali diverse, poiché il ruolo strutturale delle varie parti del discorso in un testo letterario, lungi dall'essere indifferente, ha un notevole peso espressivo. Il problema si complica ulteriormente se si considera che il cinese è una lingua non flessiva e quindi grammaticalmente molto semplice (nel senso che tutte le parole sono forme invariabili, non esistono articoli, declinazioni o coniugazioni, non è necessaria l'indicazione del genere maschile o femminile né è richiesto il contrassegno del plurale), ma sintatticamente complessa, in quanto lo stesso carattere può avere significati molto diversi a seconda della sua posizione nella frase. Per esempio, ciò che - servendoci di categorie grammaticali tipiche delle nostre lingue - potremmo chiamare "aggettivo" precede sempre il sostantivo, mentre se lo segue assume valore verbale. Così huai ren si potrebbe tradurre con "l'uomo cattivo" o "gli uomini cattivi", mentre ren huai con "l'uomo è cattivo" o "gli uomini sono cattivi". La semplicità della grammatica conferisce al cinese il suo carattere vago e allusivo, a volte ambiguo; la rigidità della sintassi gli restituisce in parte chiarezza e sistematicità. Il traduttore, costretto a muoversi entro lo spazio compreso fra questi due poli e quindi a volte obbligato a precisare, limitandone il campo semantico, ciò che era solo accennato nella frase cinese (per esempio scegliendo il tempo verbale della narrazione), altre volte impossibilitato a mantenere il valore sintattico attribuito a una parola nel contesto originario (ciò avviene per esempio quando si volge una frase attiva in passiva), può sperare di non "tradire" l'autore solo sforzandosi di rintracciare gli elementi dominanti attorno ai quali ruota l'integrità dell'intero testo. L'individuazione della dominante presuppone che il traduttore, attraverso un'analisi il più oggettiva possibile del testo, concentri la propria attenzione sulla distinzione fra elementi neutri ed elementi specifici per poter privilegiare e quindi trasferire nel metatesto gli aspetti considerati più importanti in relazione al contesto culturale e poetologico dell'autore. Proprio come in qualsiasi altra lingua, anche in cinese è possibile scavare pazientemente nel testo per cogliere tali aspetti. Ed è proprio nel loro collegamento che sopravvive il ritmo del discorso letterario. Nell'opera di Shen Congwen la ricerca e la scelta degli elementi dominanti e la soluzione dei problemi posti dall'indeterminatezza strutturale della lingua cinese sono, più che in altri autori, strettamente interconnessi, poiché egli è il più "impressionista" degli scrittori cinesi del Novecento. Grande maestro nel plasmare il cinese moderno come lingua letteraria, egli approda a una forma molto personale di lirismo servendosi, da un lato, di un lessico assai evocativo, dai significati spesso astratti ed eterei, dall'altro omettendo le specificazioni sintattiche tipiche della lingua parlata. Il risultato è una prosa altamente suggestiva, in cui la natura già di per sé elusiva della lingua cinese è volutamente accentuata, e che lascia al lettore una largo margine interpretativo. Tale prosa esige una traduzione che impieghi per quanto possibile forme sia lessicali che strutturali capaci di suggerire e accennare più che di definire in modo inequivocabile. Prendiamo ad esempio il racconto "Il marito", che apre la presente raccolta. Si tratta di una storia dall'intreccio estremamente semplice (un giovane contadino lascia il villaggio per fare visita alla moglie, che si guadagna da vivere facendo la prostituta su di un barcone ancorato in un fiume nei pressi della città e, dopo due sole notti trascorse nel postribolo durante le quali non riesce mai ad appartarsi con lei, roso dalla gelosia e disorientato da una situazione che fino ad allora gli era apparsa normale, ritorna a casa portando con sé la propria donna), ma sapientemente costruita e strutturalmente complessa. Anche qui, come nella maggior parte delle sue opere, Shen Congwen riesce a evitare di introdurre nella narrazione precisi riferimenti storici e geografici e a far emergere la vita psicologica dei personaggi in modo indiretto, per mezzo del dialogo e della registrazione dei gesti e degli atteggiamenti esteriori, pittosto che attraverso l'esplicita descrizione delle loro emozioni intime. Ma l'originalità di questa novella sta soprattutto nella sua particolare struttura: essa si articola in due parti, che si compenetrano e completano magistralmente a vicenda. La prima parte è dedicata alla descrizione della vita del fiume con i suoi "bordelli galleggianti", cui si contrappongono alcune riflessioni sulla vita in campagna, così povera che spinge molte donne a trasferirsi in città per esercitare la prostituzione con il consenso dei propri mariti, i quali, spinti dalla nostalgia, di tanto in tanto vanno a fare loro visita in occasione di "qualche festa solenne come il Capodanno". Nella seconda parte il lettore incontra un giovane dagli "abiti inamidati" addormentato su di un barcone: senza bisogno di ulteriori spiegazioni o precisazioni, egli sa di trovarsi di fronte al protagonista del racconto, dato che ha già acquisito molte informazioni su tanti mariti come lui attraverso le descrizioni e gli episodi di carattere generale contenuti nella prima parte. E' quindi pronto a lasciarsi condurre dall'autore attraverso lo svolgimento di questa partcolare vicenda con tutto il bagaglio di conoscenze necessarie a comprenderla al meglio. L'unità fra le due parti del racconto è data, nell'originale cinese, oltre che dagli aspetti contenutistici - il marito in questione non è diverso dal tipo umano rappresentato nella prima parte - dall'identità strutturale, in primo luogo dall'identità del tempo verbale. Il tempo è, infatti, come sempre in cinese, indefinito e può essere reso come meglio si crede in una lingua occidentale. Si potrebbe quindi optare per l'uso del presente nella prima parte e di un tempo passato nella seconda. Questa soluzione è stata per esempio adottata in una recente traduzione inglese, con esiti molto convincenti in quella lingua, che dispone di un unico tempo semplice (il Simple Past) per il passato del modo indicativo, con senso sia perfettivo che imperfettivo, a seconda dei contesti. Se il traduttore inglese fosse ricorso al Simple Past in entrambe le parti della novella, avrebbe rischiato di generare confusione fra azioni definite e azioni abituali e annullato la differenza fra le due sezioni che, nell'intenzione dell'autore, dovevano avere carattere generale la prima (narrazione di episodi possibili e situazioni tipiche affrontate da tutti i mariti) e particolare la seconda (narrazione delle speciali vicende vissute da quel particolare marito). Poiché invece l'italiano dispone di due tempi semplici per il passato, mi è sembrato naturale differenziare le due parti della novella adottando l'imperfetto nella prima e il passato remoto nella seconda. Mi pareva che l'imperfetto, allontanando le vicende narrate nel tempo senza circoscriverle entro limiti precisi, potesse meglio riflettere il tono sfumato, quasi evanescente del racconto, tanto più che Shen Congwen descrive qui una realtà appartenente al vecchio mondo della Cina tradizionale, già in declino all'epoca in cui egli scriveva. Inoltre l'imperfetto, comunicando un'idea di ripetitività e di consuetudine, traduce bene il carattere esemplare delle possibilità dischiuse dalla situazione rappresentata ("… Il marito ripensava alle galline e ai maialini che aveva lasciato alla fattoria… Un sottile senso di solitudine si insinuava nel suo cuore e con esso un gran desiderio di tornarsene a casa. Ma se ne andava davvero?..."). Al contrario, quando l'autore passa a introdurre i veri e propri personaggi della vicenda, mi è apparso più adeguato l'impiego del passato remoto, che precisa e puntualizza, stabilisce un limite temporale all'azione narrata e ne sottolinea l'unicità e il carattere irripetibile. E' questo solo un esempio di quali implicazioni semantiche e stilistiche porti con sé un problema in apparenza secondario come quello della scelta del tempo verbale in fase di traduzione. Ponendomi simili problemi, e altri ancora, e cercando di risolverli di volta in volta con tutta la sensibilità e la disponibilità di cui ero capace, ho cercato di restare fedele a Shen Congwen e di restituire un po' della sua grandezza al lettore italiano.