Il calzolaio Arnold è uno scorcio nella vita di un artigiano un po’ burbero e del suo aiutante, Norman. Con questo e gli altri racconti di A Brief Conversion and Other Stories Lovelace fa immergere il proprio lettore nella realtà di Trinidad. A portarci per mano sono i suoi personaggi, persone umili come il calzolaio Arnold, appunto. Attraverso i loro occhi, e ancora di più attraverso le loro parole, scopriamo una realtà molto diversa dalla nostra, fatta da una quotidianità semplice, dietro la quale però si nasconde una grande complessità: l’eredità di una storia ingombrante e con cui non è facile fare i conti. I segni e il peso della colonizzazione sono ancora visibili, non solo nella povertà dei personaggi che incontriamo in questa storia, ma soprattutto nella lingua che Lovelace utilizza per raccontarcela.
La lingua in letteratura è indubbiamente fondamentale: la parola è il primo strumento a disposizione dello scrittore attraverso cui plasmare la propria storia, la propria opera. Per uno scrittore postcoloniale, però, la lingua e le scelte che la riguardano non possono essere considerate solo da un punto di vista stilistico: esse arrivano ad assumere valori politici e sociali. Per uno scrittore postcoloniale, lo Standard English non è la lingua madre, bensì una lingua che è stato costretto ad apprendere, la lingua del colonizzatore. Nei Caraibi e in particolare a Trinidad la lingua madre dei nativi è invece il creolo. Essendo la lingua materia viva, creolo e Standard English esistono separatamente solo sulla carta e nella quotidianità le due lingue si incontrano e si mescolano, dando origine a un’ampia gamma di varietà intermedie detta creole continuum. Lovelace, quindi, come tutti gli scrittori postcoloniali, ha a sua disposizione uno spettro linguistico molto allargato da cui attingere per la parlata mediana dei propri personaggi. E la scelta non è mai banale, anzi, essa è una scelta spesso politica e culturale. Ne Il calzolaio Arnold Lovelace opta per far utilizzare al suo narratore la varietà di inglese standard parlata nell’isola di Trinidad, mentre nelle battute di dialogo i personaggi si esprimono con varianti del creolo. Questa scelta non poteva, e non doveva, essere persa nella traduzione, che non deve essere mera trasposizione di un testo, ma, come dice Berman, deve cercare di accogliere lo straniero in quanto altro da sé. Nel tentativo di accogliere al meglio questo testo in tutte le sue caratteristiche, nelle parti descrittive ho cercato di riportare lo stile ironico del narratore con una lingua standard. Più difficile è stato, invece, lavorare sui dialoghi. La varietà di creolo utilizzata da Lovelace non si distacca moltissimo dallo standard, limitandosi spesso alla mancata flessione della terza persone del presente, all’ellissi del verbo essere e all’impiego di espressioni idiomatiche. Però spesso le battute sono corte e ripetitive. Non potevo non tener conto di questo ritmo particolare, di come queste due caratteristiche rendessero i dialoghi estremamente immediati e spontanei. Pertanto, nella traduzione per far sentire la deviazione dallo standard ho deciso di provare a fare lo stesso con l’italiano; ricorrendo alla frase scissa, alla dislocazione dei pronomi, all’uso dell’imperfetto al posto del condizionale e del congiuntivo e ad altre deviazioni tipiche dell’oralità, spero di essere stata in grado di donare anche all’italiano quella spontaneità tipica del parlato senza aver ridicolizzato lo straniero.
Infine, Lovelace inserisce nel testo elementi tipici della cultura di Trinidad come parang, aguinaldo e joropo. Sono termini importanti perché riguardano la musica, un tratto distintivo dell’isola e di tutti i Caraibi. Ad essa, infatti, non sono solo legati momenti di folklore e spensieratezza e di evasione da una quotidianità esasperante, ma la musica riveste anche un grande valore storico e sociale. Basti pensare al calipso che, nonostante le sonorità allegre, nasce in realtà come canto di denuncia degli schiavi. Lovelace, a differenza di altri autori postcoloniali, ammicca al suo lettore. Lo avvisa che sta per entrare in contatto con qualcosa di molto lontano da lui, e forse sconosciuto, e lo fa inserendolo nel testo in corsivo. Non usa né note, né glosse. Vuole che sia il lettore a compiere l’ultimo passo verso di lui, verso il suo testo, verso la sua cultura. Lo stesso deve fare la traduzione. Il lettore italiano deve trovarsi davanti a sua volta a qualcosa di inatteso e diverso da sé e anche lui deve compiere un passo nella direzione del testo. Per questo motivo ho lasciato a mia volta i termini in corsivo: nella speranza che il lettore riconosca lo straniero nel testo e lo accolga, come ho cercato di fare nella mia traduzione, in quanto diverso da sé e se ne incuriosisca.