The Book of Night Women, di cui Donne della notte è un capitolo, è il secondo romanzo del giamaicano Marlon James. Ambientato in Giamaica negli anni a cavallo fra Settecento e Ottocento, racconta di Lilith, schiava adolescente che, in virtù del suo sangue misto, non finisce a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, ma viene presa a servizio nella casa padronale, privilegio che le procurerà più disgrazie che vantaggi.
Nel romanzo, affollato di personaggi molto diversi tra loro per origine e posizione sociale, le parlate e i linguaggi si intersecano continuamente e Donne della notte ne è un esempio: c’è l’inglese scabro e rudimentale di Lilith, l’inglese che Robert Quinn si è portato oltreoceano dalla natìa Irlanda e il cockney venato di gergo marinaresco dell’aguzzino McClusky. Il primo obiettivo della mia traduzione è stato quindi ricrearne l’espressività marcatamente orale ‒ sia nel dialogo, sia nel flusso di pensieri di Lilith ‒ con una lingua non standard che aderisse il più possibile alle caratteristiche di ognuno.
La parlata di Lilith, con la sua approssimazione grammaticale e sintattica, a volte richiede un certo sforzo per essere capita, ma è pur sempre una lingua coerente, non una semplice accozzaglia di errori; tanto più che per lei, nata in schiavitù, è la lingua madre, non la traduzione mentale di una lingua di quell’Africa che non ha mai conosciuto. A mischiare ancora di più le carte in tavola, poi, c’è il fatto che Lilith sa leggere e lo fa con gran godimento, ma solo clandestinamente e senza che traspaia dal suo modo di parlare con i bianchi che altrimenti le farebbero pagare carissima la sua “trasgressione”. Il mio sforzo, quindi, è stato di evitare la caduta nel luogo comune e nel caricaturale, per dare al personaggio la dignità di una voce propria. E superato il primo impatto, trovare la chiave della partitura di Lilith è stato più naturale del previsto: è un personaggio mosso da istinti e pulsioni atavici come il suo nome e anche quando rimugina su questioni complesse – come nel brano scelto – la dinamica dei suoi pensieri è trasparente, umana, condivisibile. Immedesimarmi con lei e seguirla come un attore fa con il suo personaggio, è stato spontaneo e le parole sono venute di conseguenza.
Non così per McClusky.
McClusky è l’unico personaggio di tutto il libro – dove gli episodi di violenza abbondano – a non avere mai non dico una punta di rimorso, ma nemmeno un sussulto di coscienza: stupra, tortura, uccide. E non batte ciglio. È il delinquente assoluto, ma non c’è ombra di grandezza nella sua depravazione: la sua anima è solo quel “buco nero dietro i suoi denti gialli” che vede Lilith. E ricreare il suo linguaggio usando quella specie di metodo Stanislavskij applicato alla traduzione di cui parlavo prima, questa volta non è stato facile. Lilith è colta di sorpresa dal suo arrivo, io invece ero consapevole della sua presenza nel riquadro della porta fin dall’inizio e temevo il momento in cui avrei dovuto prestarmi al personaggio e farmene voce. Non a caso le sue battute sono state quelle su cui ho lavorato di più, sia per l’impronta dialettale difficile da rendere che per la necessità di diversificarle da quelle degli altri. Più che di una partitura musicale, per McClusky parlerei di lima e scalpello. E un senso di panico. Panico che poi ho superato perché la scrittura di Marlon James non è mai banale e crea, è vero, tanti problemi, ma con la sua forza felicemente contagiosa dà anche lo slancio per risolverli.