Il Messia è la prima opera di Jean Grosjean che viene tradotta in Italia. Strano destino, quello di Grosjean, ignorato sino ad ora nel panorama editoriale di lingua italiana. Oltralpe, però, è stato un personaggio di rilievo nell’ambito della letteratura e, forse, senza di lui la Francia non avrebbe avuto un autore noto come Christian Bobin, ora tradotto in molte lingue come pure nel nostro Paese. In fondo, senza Grosjean non ci sarebbe stato Bobin, eppure il primo è rimasto per noi nell’ombra, mentre il secondo è venuto in piena luce.
Personalità complessa e poliedrica, Grosjean (1912-2006) è stato poeta e scrittore, ma anche traduttore e commentatore originale della Bibbia. Entrato in seminario nel 1933 venne ordinato prete nel 1939, dopo aver compiuto il servizio militare in Libano e aver viaggiato in Siria, Egitto, Palestina e Iraq. Durante la Seconda Guerra Mondiale, nei campi di prigionia di Sens, e poi in Pomerania e Brandeburgo, incontra André Malraux, Roger Judrin e Claude Gallimard, nomi e volti di un’amicizia che lo accompagneranno per tutta la vita. Così il destino di Grosjean si intreccia con quello dei Gallimard: Gaston Gallimard aveva fondato l’omonima casa editrice parigina nel 1911 e il figlio Claude ne prese poi la direzione. Nel 1949 Grosjean pubblicò proprio per i tipi di Gallimard la sua prima opera poetica, Terre du temps; negli anni successivi restò sempre fedele a questa casa editrice, come autore, come membro del comitato di lettura per la scelta dei titoli da pubblicare e come collaboratore della Nouvelle Revue Française.
Nel 1950 la vita di Grosjean conosce una svolta: abbandona il sacerdozio, si sposa e compra casa nel piccolo paese di Avant-lès-Marcilly. Così inizia a dedicarsi ad un vasto lavoro di traduzione, spaziando dalla tragedia greca di Eschilo e Sofocle alla poesia inglese di Shakespeare, dal Corano alla Bibbia, mentre continua a scrivere versi…
Fra il 1974 e il 1997 compone una serie di racconti poetici, dedicati ad alcune figure bibliche: Le Messie (1974), Les Beaux Jours (1980), Élie (1982), Darius (1983), Pilate (1983), Jonas (1985), La Reine de Saba (1987), Samson (1988), Samuel (1994), Adam et Ève (1997).
Il Messia inaugura questa serie di riscritture della Scrittura. Grosjean – ha scritto J. Tolentino de Mendonça nell’introduzione alla traduzione italiana del libro – «è stato uno dei più brillanti riscrittori di testi sacri che il XX secolo abbia conosciuto. Con un bagaglio culturale eccezionale, in cui spicca la sua padronanza ingegnosa delle lingue e delle culture del mondo antico, Grosjean si è affermato come uno dei creatori decisivi dell’epoca contemporanea, anche se rimane una figura segreta, emarginata, quasi anonima». Una figura da affiancare a quelle dei grandi poeti cristiani del secolo scorso, come Charles Péguy, Paul Claudel, Marie Noël e Patrice de la Tour du Pin.
Il Messia è il racconto di una passeggiata, di una scampagnata – con qualche sosta in città – del Risorto, fra l’alba della Risurrezione e il quarantesimo giorno, quello dell’Ascensione. Quaranta giorni della vita di Gesù, di un uomo, all’apparenza in tutto simile agli uomini, eppure diverso da tutti gli altri, perché risorto, perché è il primo dei risorti e deve in qualche modo imparare a vivere da risorto, a familiarizzarsi con la sua nuova condizione. Grosjean ridipinge l’affresco evangelico dei racconti pasquali, dischiude sotto gli occhi del lettore un polittico – antico, eppure nuovo –, ridonando colori inediti alla scena dell’incontro di Gesù con Maria Maddalena e con i discepoli sulla strada di Emmaus, alle apparizioni di Gesù nel Cenacolo o alla pesca miracolosa.
«Grosjean ci trasporta in un’atmosfera che ricorda i dipinti di Caspar David Friedrich. E, come in quel caso, è sbagliato dire che ci troviamo di fronte a una messa in scena irreale. Non ci troviamo di fronte: ci ritroviamo all’interno. Questo non è l’irreale: è il reale più puro. Ce lo dice il nostro cuore, quando inizia a battere perché si vede intento a riscrivere “l’ora più bella di tutta la storia umana”» (T. Mendonça). In effetti, c’è in Grosjean qualcosa del «paesaggio simbolico» di Friedrich, con le sue luci d’alba o al tramonto, che lasciano percepire il paesaggio della natura come opera divina, come segno allusivo di un oltre. Grosjean è, d’altronde, poeta del paesaggio e cantore del vegetale: non c’è opera di Grosjean senza la vibrazione di un filo d’erba, lo stormire delle fronde, la danza degli uccelli che i rami degli alberi si scambiano.
Ma forse, nelle pagine di Grosjean, c’è anche qualcosa de Le Christ jaune di Paul Gauguin: com’è noto, il pittore francese opera una trasposizione spazio-temporale della scena della crocifissione di Cristo, dall’altura gerosolimitana del Golgota alla Bretagna francese di fine Ottocento, sullo sfondo di «una campagna affogata nel giallo», come scriveva l’artista stesso. Una campagna descritta con vaste campiture di colore giallo, punteggiate di alberi rosso-arancio, e in primo piano, ai piedi della croce, nessun personaggio evangelico, ma alcune contadine bretoni con i loro abiti tradizionali, quale translatio, nella Francia della fine del XIX secolo, delle pie donne del Golgota. Ebbene, anche in Grosjean il Risorto si staglia, umilmente, sullo sfondo campestre, verde di erbe spontanee, di fronde e di alberi: risvegliato nell’alba pasquale, il Messia «meravigliosamente malsicuro, vagava come a tastoni nella campagna; a stento i suoi sguardi alla lunga illuminarono dal di sotto i brandelli di nuvole che si trascinavano nel cielo. Gesù riconosceva i diversi profumi dei fiori che il suo alluce sfiorava nell’ombra: una primavera fatta di nulla, violette nascoste, giacinti nascenti, germogli di glechoma. […] Nella campagna alcuni uomini andavano alla loro vigna o ai loro affari, e anche questo non lo commuoveva per nulla. Il suo Dio gli restava invisibile. […] Camminava in segreto, tenendosi lontano dalle cascine, profittando di tratti di siepi o dei recessi del terreno per passare inosservato, ma non poteva impedirsi di rischiarare la banalità del mondo ed ebbe l’impressione di restarvi impigliato. […] Si aggirò intorno alla sua tomba fra le primule che lo guardavano con i loro mirabili occhi di illetterate».
Seguire i sentieri pasquali del Messia di Grosjean implica accettare un certo spaesamento: dalla geografia palestinese si passa al paesaggio di un borgo francese, basta girare l’angolo! Il Cristo era appena uscito dalla locanda di Emmaus, a una decina di chilometri da Gerusalemme, ad ecco che «aggirò Montussaint e si ritirò nei boschi adorni di gemme. Evitò Guèble che stava scendendo con la sua fascina di legna. Seguì vecchi sentieri di ceppaie dove i rovi stavano ricrescendo. A volte un albero mezzo sradicato dalle raffiche di vento gli sbarrava il passaggio, ma lui oltrepassava gli ostacoli senza battere ciglio. Qualche graffio gli arrossava appena le cicatrici sulle mani e sui piedi». Dalla periferia della Città santa a Montussaint, un comune francese abitato da un pugno di persone, nella Borgogna-Franca Contea: è questione di un attimo, di una frase, di una riga... E quando Grosjean scrive che il Risorto «si allontanò dal villaggio, scese attraverso il bosco dietro le rocce e attraversò il Crénu al ponte di Puessans prima che le donne si recassero al lavatoio. Poi seguì il torrente, calpestando lo zafferano dei prati», la scena sembra uscire dalla tela di Gauguin.
«La parola di Jean Grosjean non frequenta i santuari: “il Messia si incontrerà nel deserto dei campi e delle stanze piuttosto che nei luoghi sacri, dove verrà solo come critico”. Nel [dipartimento francese] dell’Aube, vede la Samaria e la Galilea. I suoi vicini, le persone che incontra nelle stagioni, sono Maria, il Messia, Samuele, Giona. Come un comune mortale, potrebbe essere uscito da Betlemme come dal suo piccolo borgo di provincia, o da quella locanda sulla strada di Emmaus. Ci viene in mente la mirabile lezione di Caravaggio, che per dipingere Maria scelse una passante sul marciapiede di una strada popolare di Roma. In effetti, non ci sono altri viri illustres. Tutti possiamo essere Scrittura in atto, Bibbia incarnata» (Y. Leclair).
E il Gesù, che cammina su un sentiero della Palestina che ben presto devia lungo un cammino campestre della Francia interna, si ritrova a spiare di lontano una festa patronale, e poi – non visto – attraversa una chiesa, dove vede sé stesso, immobilizzato in una statua d’altare: «La sua effigie di Risorto, in gesso dipinto, già emergeva dalla parete sopra l’altare. La vide, ridicolmente vestita con un mezzo mantello blu alla maniera di san Martino: brandiva con uno slancio immobile una specie di stendardo danese». Iconografia del Risorto, fra ironia e anacronismo: mentre si racconta il fondamento scritturistico, rievocando il Gesù dei Vangeli, si descrive al contempo la Wirkungsgeschichte, la storia dei suoi effetti, tra paradosso e deformazione, per suggerire cosa si sia giunti a fare di quel Cristo, non di rado con un sensibile allontanamento dalla semplicità sorgiva del fondamento stesso… C’è dunque un’«ironia cristica», e accanto ad essa una «melanconia cristica» (L. Rèda): lo sguardo stupito, forse un po’ perso o quasi deluso, del Gesù che lentamente prende atto di ciò che la cristianità lungo i secoli ha fatto di lui. «Il Vangelo circola all’ombra della Chiesa, o a causa di essa o nonostante essa – affermerà Grosjean in Araméennes –. […] I nostri Vangeli non sono delle icone che ci mostrano un Cristo fissato in una doratura, appena tremolante per lo sfarfallio della fiamma di una lampada. No, i nostri testi ci mostrano un Cristo meravigliosamente docile alle circostanze, che si adatta perfettamente alla diversità dei suoi interlocutori e si sottomette totalmente al carattere evolutivo di ogni esperienza umana».
Il Risorto nei suoi incontri pasquali resta sospeso, nelle parole di Grosjean, fra emozione ed enigma: non riconosciuto, scambiato per un altro, dalla Maddalena che lo crede un «giardiniere» o dai discepoli pescatori che lo vedono aggirarsi sulla riva del lago, come un «bourgeois» che dà loro istruzioni per la pesca, mentre loro hanno faticato invano tutta la notte. Anche i suoi, quelli che gli erano stati più vicini, che erano parte della sua famiglia, del suo gruppo, che condividevano ormai una “tradizione” comune, sono incapaci di riconoscerlo: «Il Messia mostra un Cristo stufo di queste giustificazioni, e sempre più propenso a prendere le distanze da quelli che erano stati i “suoi”» (É. Doublet). D’altronde, come affermerà l’autore nei dialoghi delle Araméennes, «anche una cultura cristiana potrebbe essere una trappola da cui un giorno dovremmo uscire». C’è un’indisponibilità ultima del mistero (di Dio) che non può essere limitata dai nostri schemi né ridotta alla nostra pretesa di afferrarlo o possederlo.
Scrittura a tratti abrasiva, quella di Grosjean, percorsa da un’ironia corrosiva contro certo cattivo gusto, anche ecclesiastico, come nel caso dell’arte sulpiziana: una voce contro ogni tentazione di idolatria, vecchia e nuova, contro la violenza della guerra, contro il vuoto di certo pensiero e di troppe parole. Questi balzi repentini da un millennio all’altro, dai contesti geografici del Medioriente a scene di prossimità quotidiana francese, il gioco di contrasti, contraddizioni, anacronismi non servono solo «a mostrare l’attualità dei soggetti che l’autore affronta», né ad indicare «la freschezza dei testi biblici e soprattutto dei Vangeli. L’autore non pensa tanto a rinnovare le fonti (ad “adattare” i testi biblici), quanto a mostrare quei pervertimenti che distolgono da Cristo e dal suo messaggio. In questo senso gli anacronismi indicano soprattutto la necessità dell’intervento cristico in seno al mondo attuale, come nelle epoche che vengono a disturbare» (É. Doublet).
Vi è poi lo spaesamento di un lettore che non troverà in queste pagine alcuna indulgenza per un Gesù oleografico, circonfuso di devozione: il Messia è ruvido nei tratti e nei modi, a volte nelle parole. Grosjean guarda alle mani di Gesù che impastano la farina «su una pietra cava», mentre il Risorto sta preparando un pic-nic per i suoi discepoli-pescatori, un Petit déjeuner sur l’herbe, «e, con le mani piene di pasta, prendeva, in prossimità del fuoco, dei ciottoli ardenti che gli cuocevano piccole cupole di pane nel palmo delle mani». Non è un Cristo aureolato o nimbato di gloria il Messia di Grosjean, ma un risorto stupito, nell’alba nuova del mondo: la cristologia del poeta nasce dal basso, dall’alluce di Gesù che carezza i fiori, nel mattino rugiadoso; e sarà ancora a partire dal quel dito del piede che Grosjean racconterà l’Ascensione: «egli ebbe una contrazione dell’alluce che impresse al suolo un’impercettibile scossa, tanto che il terreno si staccò dalla pianta dei suoi piedi». Non è tanto il Cristo che ascende a dominare la scena, quanto il precipitare della terra che sembra sottrarsi al contatto con i Suoi piedi, sprofondando.
Un Cristo in punta di piedi, dunque, un Cristo botanico che costringe il traduttore a familiarizzarsi ora coi nomi scientifici delle piante sfiorate ora coi loro nomi popolari e ordinari. Un Cristo florale, che dice la passione di Grosjean per la botanica, una passione onnipresente in tutta la sua opera, in prosa e in versi; una passione che contagerà anche la prosa poetica incantata di Bobin, fra pagine di boschi e giardini, punteggiati di erbe selvatiche e fiori.
La traduzione implica necessariamente uno sguardo sistemico, che abbracci tutta l’opera di Grosjean: i suoi versi di poeta, con le infinite variazioni sui temi paesaggistici, con una lingua alta, letteraria, a tratti aulica e desueta, che richiede nella resa italiana un registro linguistico altrettanto ‘straniante’; le sue prose poetiche di riscrittura biblica; le sue traduzioni commentate e i suoi saggi, specie sul corpus johanneum, cominciando da L’Ironie christique. Commentaire de l’Évangile selon Jean.
Entrare nell’opera poetico-letteraria di Grosjean richiede di fare l’esperienza come di un luogo in penombra: in questo passaggio dalla luce esterna alla semioscurità dell’interno, occorre un po’ di tempo prima che gli occhi si adattino a questa luminosità nuova, soffusa (una lumière tamisée, si direbbe in francese, una luce “attenuata”, “smorzata”, “soffusa”, come “passata al setaccio”). «Il momento poetico – affermava Grosjean nei dialoghi di Araméennes –, poco importa se sia riconosciuto come tale oppure no, è il momento in cui il linguaggio raggiunge una luminosità un po’ cieca […]. Il poeta avanza un po’ come un cieco. Non vede dove va, ma poiché esige più verità, una verità quasi immediata, esige più densità».
Percorrendo e traducendo le pagine di Grosjean si ha l’impressione che «per quell’uomo il linguaggio delle cose e delle persone fosse l’incarnazione, sia pure maldestra, di un silenzio più grande, di una presenza inafferrabile, che in fondo non è altro che il riflesso del Verbo attraverso il quale Dio fa esistere, un riflesso che la poesia manifesta a suo modo, quando riscopre nella nativa innocenza un po’ di quel potere, dato ad Adamo, di chiamare le cose con il loro nome, ciascuna con il suo nome, il che in parte spiega forse perché il linguaggio poetico di quell’uomo si sia fatto più puro di libro in libro: così, mentre il silenzio è cresciuto nei margini, la Parola si afferma e risplende il volto dell’infinitamente Presente, questo Messia che non cessa di camminare nel mondo con il sorriso enigmatico di chi non c’è più, eppure c’è sempre, per quest’uomo chiamato due volte Jean [Jean Grosjean], che non ha mai cessato di aprirsi un varco tra le maglie dell’esistenza e del linguaggio, e che ora tace con tutto il cuore, mentre il suo silenzio è inesauribile» (G. Goffette).