La pubblicazione de Il principe giallo in traduzione italiana si colloca nel contesto di una lenta e faticosa penetrazione della letteratura ucraina moderna e contemporanea nel panorama editoriale italiano. In un anno che ha visto anche l'uscita nella nostra lingua del terzo romanzo di Serhij Žadan (La strada del Donbas, Voland, or. Vorošylovhrad, 2010), il più noto e attivo scrittore ucraino vivente, la vicenda italiana del romanzo di Vasyl' Barka (1908-2003) mostra come le sorti della letteratura ucraina nel nostro paese siano ancora nelle mani del caso, nonché di un ristretto numero di studiosi e appassionati.
Scritto tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta negli Stati Uniti, dove Barka si era stabilito da circa un decennio, Il principe giallo ha visto una prima traduzione in francese nel 1981, pubblicata da un editore di grandissimo prestigio quale Gallimard. La sua versione italiana si deve alla forte motivazione di Massimo Angelini, direttore della casa editrice ligure Pentàgora, specializzata in tematiche rurali, dalla riscoperta di antiche tecniche di coltivazione alla storia della civiltà contadina nel mondo. Al catalogo di Pentàgora si è così venuto ad aggiungere un romanzo sul holodomor (letteralmente “sterminio per fame”), la carestia indotta dalle requisizioni nell'Ucraina del 1932-33, un episodio della storia del Novecento ancora a molti sconosciuto, nonostante un sensibile aumento delle pubblicazioni scientifiche e divulgative sul tema in diversi paesi negli ultimi anni.
Numerose sono le particolarità dell'opera che ne rendono la traduzione un'impresa di particolare difficoltà. Alle prese con una scrittura romanzesca di ispirazione autobiografica e di innegabile valore documentaristico, il traduttore si ritrova confrontato con una responsabilità nei confronti della Storia di portata non trascurabile. Nella tragica vicenda – in questo caso si fatica veramente a trovare un degno sostituto per questo sempre più abusato aggettivo – della famiglia Katrannyk e del villaggio contadino nell'Ucraina centrale in cui essa risiede è racchiusa una preziosa testimonianza che merita di diventare dominio pubblico, anche e non da ultimo attraverso la finzione narrativa. Se le ultime pagine, che coincidono con la fine del terribile inverno 1932-33, lasciano intravedere una flebile luce di speranza, il romanzo nel suo complesso lascia il lettore (e, prima di lui, il traduttore) in balia di un epos spietato, indicibilmente crudele, così come lo è stata la concreta realtà storica di quei lunghi mesi per un numero ancora non esattamente definibile, ma certamente altissimo, di abitanti dell'Ucraina sovietica. Nella descrizione a tratti espressionista degli orrori della fame, della sofferenza dei corpi e del dolore della morte – di chi se ne va e di chi rimane – il narratore barkiano non risparmia alcunché a chi sceglie di accostarsi al romanzo.
I problemi del traduttore, tuttavia, non si limitano agli obblighi di fronte all'evento storico. È proprio, anzi, per garantire un adeguato apprezzamento di quest'ultimo da parte di un pubblico che ci si augura, naturalmente, molto ampio che si sono imposte delle scelte coraggiose, a tratti drastiche, sul piano dello stile. L'orizzonte stilistico di Barka può risultare decisamente inattuale anche per chi è abituato a leggere molto. Il suo pathos – nazionale, religioso, familiare - corre il rischio di allontanare alcuni lettori e di indebolire conseguentemente l'indubbio potenziale narrativo del romanzo. Se la prima, “canonica” traduzione francese a cura di Olga Jaworskyj è basata su un'estrema fedeltà al linguaggio della versione originale, la traduzione italiana cerca di andare in contro al fruitore, anche a costo di accorciare qualche frase e limare qualche aggettivo in eccesso, con l'obiettivo di “alleggerire” il testo e renderlo accessibile a un pubblico quanto più vasto possibile. Lo studioso di letterature slave può avere l'impressione che nella sua prosa Vasyl' Barka abbia più o meno consapevolmente lottato contro gli eccessi “formalistici” - per usare un termine con cui in Unione Sovietica si bollava l'arte non conforme ai dettami del Realismo Socialista - della sua poesia genuinamente modernista, che ha fortemente ispirato i giovani poeti della diaspora ucraina in America tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, fautori di un'estetica pienamente inserita nella storia della civiltà letteraria occidentale, anche grazie all'esempio della poesia barkiana (si veda a questo proposito il libro di Maria Grazia Bartolini “Nello stretto triangolo della notte...”: Jurij Tarnavs'kyj, il Gruppo di New York e la poesia della diaspora ucraina negli USA, Lithos, 2012).
Ci si augura dunque che gli interventi – non sistematici – effettuati sul testo di Barka possano aiutarne la circolazione nel mercato editoriale italiano, contribuendo tanto all'informazione su una pagina della recente storia europea che non è più possibile continuare a ignorare, quanto alla diffusione della letteratura ucraina, della sua varietà stilistica e tematica e del suo forte interesse anche al di fuori dei confini nazionali ucraini.