Su uno scaffale della mia libreria una pila di guide e romanzi dedicati alla Cina può far pensare a un’imminente partenza o a un recente rientro da un viaggio. Entrambe le ipotesi sono corrette: se da un lato la sensazione è di essere appena tornata dopo mesi trascorsi a spasso per gli hutong di Pechino, dove quei testi si sono rivelati utilissimi, dall’altro sto effettivamente pianificando un viaggio in Cina, spinta dal desiderio di sperimentare in prima persona tragitti che ad oggi non hanno superato i confini di Google Maps e di scoprire storie e sapori a cui per ora danno concretezza solo le pagine di un libro.
Tutto è cominciato con la ricerca dell’aggettivo giusto. Anzi, di sette aggettivi giusti riferiti a una sola pietanza, nelle prime due righe del capitolo iniziale di Kitchen Chinese, romanzo d’esordio di Ann Mah. Ero alle prese con l’anatra alla pechinese, piatto universalmente noto. Eppure quegli aggettivi non corrispondevano fino in fondo alla ricetta di mia conoscenza, da cui la prima di una serie di incursioni nel più autentico tra i ristoranti cinesi presenti in città, con la speranza di far rivivere al mio palato sensazioni simili a quelle descritte dall’autrice – e di affrontare degnamente la traduzione di ricette infinite e minuziose che mi avrebbero accompagnato fino alla fine di questo romanzo dai toni umoristici e romantici. Era chiaro che le origini cino-americane di Isabelle, la protagonista del libro, avrebbero richiesto un grado di mediazione in più: al passaggio dall’inglese all’italiano, si aggiungeva quello tra cultura cinese e italiana per via anglosassone. E questo lasciava già intuire che sotto i toni leggeri da Diario di Bridget Jones in veste orientale, fra scambi vivaci di battute brillanti, avrebbe potuto celarsi altro, l’autentico grado di difficoltà della traduzione.
Licenziata in tronco e scaricata dal fidanzato, Isabelle sceglie di abbandonare Manhattan e di ripartire da zero a Pechino, dove vive la sorella, avvocato in carriera. In un paese dove non è nemmeno in grado di fare un’ordinazione al ristorante, trova lavoro come critico gastronomico per una rivista in lingua inglese, sfruttando la personale passione per la cucina e la sua conoscenza del «cucinese»: kitchen chinese, appunto, pseudo-cinese a base di vocaboli culinari appreso da piccola tra i fornelli di casa. Ma i viaggi alla scoperta di specialità locali non sono solo un pretesto per incontri galanti o avventure tragicomiche: tra i privilegi di una sorta di limbo in cui si crogiolano gli stranieri di successo a Pechino, Ann Mah propone una garbata analisi del contrasto tra identità culturale e identità etnica e mano a mano che ci si addentra nella narrazione. Isabelle impara a conoscere se stessa e un paese che poco si rispecchia nei ricordi di famiglia, svelato in un fluido alternarsi di episodi divertenti e accenni a una realtà inquietante.
Sono passaggi resi possibili essenzialmente da una lingua sempre in bilico tra queste due dimensioni, che costringe il traduttore a una concentrazione costante per mantenersi in equilibrio come un funambolo su un’ipotetica linea di confine tra colloquiale ma non troppo, goliardico mai volgare, secondo un’elegante linearità e limpidezza di stile che ben si presta anche al ritmo meno sostenuto e all’atmosfera più dimessa di quegli attimi frequenti in cui il velo glamour si solleva, per offrire scorci di un regime condito da censura, tirannia e selvaggio sviluppo economico, senza rispetto per storia né tradizioni.