La grande migrazione

Argomento: Romanzo
Editore: Iperborea, 2023
Pubblicazione: 19 giugno 2023

Elogio della tizietà. Nonsense e poesia nella prosa di Kari Hotakainen

Uno scrittore come Kari Hotakainen presenta a chi lo traduce una serie di problemi generali e specifici, e tra questi il suo apparente e costante uso di nonsense nel testo. Si tratta di una strategia riscontrabile in diversa misura in ogni testo letterario, ma nello scrittore finlandese ha una sua costanza.

Definito in molti modi nel tempo e comune a tutte le definizioni, il nonsense è l’enfasi sulla centralità del linguaggio, sposta l’attenzione del lettore dalla referenzialità del linguaggio al linguaggio stesso. Si tratta quindi di una forma di testo metanarrativo, si presenta come opera compiuta a prescindere dai rimandi a una realtà “esterna” al linguaggio usato. Hotakainen è scrittore attentissimo ai mutamenti sociali, i suoi romanzi affrontano in maniera sistematica questioni legate alla famiglia, al lavoro, alla sanità pubblica, alla religiosità, ma sempre dal punto di vista della “crisi” degli istituti sociali corrispondenti.

Hotakainen trasferisce le diverse classi sociali nel suo linguaggio, fino a darne una mimesi in apparenza perfetta. In questo è il più degno continuatore della tradizione di Veijo Meri. Ma in quel linguaggio inocula una sua visione critica che spesso rovescia il linguaggio e i personaggi mostrandone limiti e infondatezza.

Nella presentazione dei suoi libri si parla spesso di “umorismo”, e può anche essere vero, ma spesso è qualcosa di più ambizioso: la sua è una forma di rivoluzione sociale operata nel laboratorio linguistico, una rivoluzione in vitro.

E si parla di uno stile “aforistico”, come tendenza a condensare il pensiero. Forse, nel suo caso, si dovrebbe parlare più propriamente di concinnità, una “conveniente disposizione delle parole e dei suoni” caratterizzata da “eleganza e semplicità”, secondo Carducci una “certa eleganza di scorci e frasi” che in Italia si ritroverebbe “solo in Toscana.”

Allo stesso modo certe sue frasi sono condite da una sorta di aceto tosco, difficili da tradurre proprio per la loro natura scorciata. Facciamo un esempio tratto dal suo capolavoro Via della Trincea. Il magazziniere Matti Virtanen viene abbandonato dalla moglie nel suo piccolo appartamento di periferia. Per riconquistarla decide di procurarsi una casa come l’aveva sempre desiderata la madre della sua figliola: una villetta con giardino e altalena e nani di plastica. Ma per averla fa appostamenti munito di cannocchiale, studia gli abitanti di quel mondo a lui sconosciuto, quelli delle villette. Che diventano i suoi nemici (si tratta di una trincea, in più di un senso).

Studia i loro rituali, tra cui quello della grigliata di cosce di pollo nel giardino. La guerra personale di Matti avrà fasi diverse. La prima fatta di appostamenti, incursioni notturne, spionaggio delle postazioni nemiche, piccole scaramucce. Una seconda, in cui le incursioni avvengono di giorno, e Matti esce dal suo appartamento-bunker per insinuarsi nei fortilizi della tribù nemica.

A metà romanzo, alla fine di un capitolo molto denso, Matti si sdraia sul prato vicino alla casetta degli usurpatori, e nascosto dietro una siepe medita: “questa non è terra vostra, questo suolo è antico, un fondale marino lottizzato e urbanizzato, una palude infida, sabbia, radici, oscurità da qui fino alla Cina”, poi fissa il cielo e pronuncia una frase che sembra ispirata – per contrasto – dal ricordo della grigliata:

Valmis olen, kun raaka olen.

La traduzione letterale cita: “Sono pronto, perché sono crudo / crudele”.

La traduzione francese, come le altre che ho consultato, conferma questa idea: “Dans ma crudité, je suis à point.”

Ma a mio parere qui si trascurano alcuni fatti significativi. Per cominciare, la rima, che contrassegna i due emistichi di quel “verso”:

Valmis olen

kun raaka olen.

Si trascura poi anche quel che sta per succedere: in effetti Matti si prepara a combattere per riconquistare la sua terra, e dunque quelle parole, alla fine di quel capitolo significativo, sono una dichiarazione di guerra. (In quell’occasione avevo consultato l’autore e mi diede conferma di quanto in effetti si trattava di un proposito bellicoso, e questo mi rassicurò).

Arrivai quindi alla conclusione di scrivere un verso, e che quel raaka era la parola decisiva che ho tradotto in un italiano volutamente arcaico,

“fera”. M’e venuto:

“Pronta la fera al suo feral disegno”.

Qui non si tratta di un aforisma, ma di una concinnità squisitamente poetica, dove l’uso di un verso all’interno del mondo più che mai prosastico, a momenti volgare, della trincea di Matti, solleva il discorso su un piano alto: verso quel cielo che lui fissa, azzurro “come gli occhi miei.”

Più spesso, nel suo laboratorio linguistico la critica sociale diventa attraverso il linguaggio, svelamento dell’inconsistenza. Niente lo eccita di più – come scrittore – della gente inadeguata, molliccia, come la mano di quella venditrice di case che lo incontra come possibile acquirente: “Vendeva il frutto di un lavoro manuale, e non capiva il senso della prima stretta di mano.”

Nel suo romanzo Tarina (Una storia), uscito per Iperborea come La grande migrazione, ci offre lo scenario di un mondo molto simile alla Finlandia attuale, in cui il progressivo svuotamento delle campagne e l’enorme ampliamento della (unica) metropoli del paese, viene visto come imposto per decreto: cioè quanto avviene (apparentemente) in modo spontaneo, lui lo racconta come un’imposizione che costringe allevatori, agricoltori, provinciali di ogni risma a lasciare tutto e precipitarsi verso la Città. Una volta arrivati nella grande metropoli, dovranno compilare un modulo che permetterà loro di avere diritto a un tetto sulla testa, e in base alla “storia” che sapranno raccontare finiranno in un appartamento o in un enorme dormitorio.

Le tante storie scritte sui moduli da gente così diversa, offrono uno spaccato sociale ricco e strano della società (di oggi): dall’intellettuale mitomane al truffatore che accoglie in casa un rifugiato, a una timorata di dio convinta che sia tornato Gesù in terra. E qui il compito del traduttore si fa duro, perché si tratta di rendere non solo il senso dei loro racconti, nell’interazione con la psicologa “precaria” che li deve selezionare, ma anche una serie di tic attraverso i quali la loro personalità viene squadernata, rivelando a volte aspetti nascosti.

È il caso di un millantatore, autore di sceneggiature televisive. Si presenta così: “Il mio nome era originariamente Kai Rahikainen, ma adesso mi chiamo Caj Rahic. Inizio con il cambio di nome perché è parte integrante della mia storia. Volevo che il mio cambiamento di vita risultasse evidente nel mio nome e anche nel mio corpo, ecco perché oltre al nuovo nome ho fatto anche un tatuaggio sulla schiena. Io riesco a vederlo solo allo specchio, ma la mia adorata Sanna lo legge ogni giorno e fa scorrere le dita sulla sua superficie. Sulla mia schiena sono immortalati i versi del pensatore indiano Gang Poh: «Tu sei la corrente, la barca il tuo cuore.» Ma è una traduzione libera.”

Ha abbandonato la famiglia, senza più curarsene, ma una figlia decide di vendicarsi rilasciando a sua volta una dichiarazione alla psicologa che indaga sullo sfuggente personaggio. Si tratta di una lista denigratoria destinata a mettere il genitore in cattiva luce, smontando il suo castello di autocelebrazioni.

“I giornalisti amano mio padre perché ha la battuta pronta più di loro. È facile da intervistare, le frasi gli escono di bocca con una tale scioltezza che non si riesce a stargli dietro.”

Ma subito dopo la stessa scioltezza paterna si intrufola nel discorso della figlia, generando un nonsense di complessa fattura.

Hän on hän. Jos hänen nimensä olisi Pertti, hänestä sanottaisiin, että Pertti on Pertti. Perttiys mahdollistaa kaiken. Perttiys annetaan anteeksi. Jos hänen nimensä olisi Maija, ei sanottaisi, että Maija on Maija. Maijuutta ei ole olemassa eikä tule olemaan.

Letteralmente: “È fatto così. Si chiamasse Pertti, direbbero che Pertti è Pertti. Alla perttietà si perdona tutto, la perttietà è concessa. Se si chiamasse Maija, non si direbbe che Maija è Maija. La maijetà non esiste e mai esisterà.”

Qui abbiamo un nonsense allo stato puro, ma giocato solo sulla possibilità lessicale di costruire un’entità astratta a partire da un nome proprio. Pertti è un nome finlandese come Mario in italiano, e Maija è comune come Luisa. L’unico rimando ipertestuale è questo: un nome di persona molto comune. L’unica differenza è che il concetto di Perttiys suona lessicalmente accettabile, mentre Maijuus sembra molto improbabile. Lessicalmente improbabile.

Per il lettore italiano, ho fatto ricorso a due nomi che in italiano indicano persone generiche, Tizio e Sempronio. Per le stesse caratteristiche: che del primo non suona lessicalmente impossibile la derivazione “tizietà”, invece “sempronietà” mi pare quasi inaccettabile.

Ne viene fuori la traduzione seguente:

“È fatto così. Si chiamasse Tizio, direbbero che Tizio è Tizio. Alla tizietà si perdona tutto, la tizietà è concessa. Se si chiamasse Sempronio, non si direbbe che Sempronio è Sempronio. La sempronietà non esiste e mai esisterà.”

La denuncia prosegue con un’altra dichiarazione di buon senso:

“Mio padre è una persona famosa, il che significa che nessuno lo conosce, ma tutti sanno tutto di lui.”

Per passare poi, nella sentenza successiva, e dovrebbe essere una conferma, al trionfo del nonsense.

Isäni on banaalin penaalin tylsin kynä.

Ma anche qui, come nel caso citato di Via della trincea, la semantica non ci viene incontro, e allora ci concentriamo sul linguaggio in sé, scoprendo un senso “poetico”, un puro gioco fonetico che fa uso di rime interne e assonanze insistite:

Isäni on banaalin penaalin tylsin kynä.

Qui al traduttore non resta che giocare con una rima e la ripetizione esibita di quelle n (che fanno tanto nonsense)

“Mio padre è il pennino più spuntato di un astuccio a buon mercato.”

Liberazione della sintassi dalle costrizioni della semantica, in una frase però sintatticamente significativa. Viene in mente l’esempio di Noam Chomsky, la celebre espressione “Colorless green ideas sleep furiously”, davanti alla quale il lettore disperato cercherà subito un senso metaforico, per poi passare a una condanna senza appello: “È un nonsense!”.

Secondo J.-J. Lecercle1, una delle caratteristiche chiave del nonsense è proprio il suo costante sfuggire alla metafora, che è una logica conseguenza della centralità linguistica del testo e della sua intrinseca tendenza all’incoerenza semantica. Che sposta per un momento l’immagine astratta del linguaggio su un livello concreto, in modo che la metafora possa essere indagata a livello sintattico del testo invece che del significato.

Da ciò l’attrazione del nonsense verso i luoghi comuni, gli elenchi, la tautologia e dettagli privi di significato ma inequivocabili come numeri. Come pure l’abbandono al puro significante. Ma non è questo un procedimento spesso usato nella versificazione poetica?

“Quando qualcuno fa il suo debutto come poeta, guarderà sempre il mondo con lo sguardo di poeta. Spero che si veda nella mia prosa. La mia opera è come me: inquieta e un po’ impaziente. Non riesco a immaginare di scrivere solo lunghi romanzi fino alla mia morte. Probabilmente troverò difficile tornare alla poesia pura, ma cerco di inserire passaggi poetici in tutti i miei testi.” 2

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NOTE 1 Lecercle, Jean-Jacques (1994), Philosophy of Nonsense. The Intuitions of Victorian Nonsense Literature, London & NewYork:, Routledge. 2 Kari Hotakainen intervistato da Viola Parente-Čapková sulla rivista a2, 2/2008.