Immagini oniriche, gotiche, cromaticamente prepotenti, personaggi fragili e delicati, che il vento sferzante delle pagine iniziali potrebbe disperdere nella tormenta di neve, nutrono il romanzo di Mathias Malzieu, che è musicista prima di essere scrittore. E La mécanique du coeur è infatti anche il titolo del disco dei Dionysos, il gruppo rock di Malzieu; l’intreccio fra le due forme espressive è tale che l’album potrebbe fare da colonna sonora, da introduzione o viceversa da prosecuzione in note del romanzo. Per il traduttore è naturale leggere le altre opere dell’autore per calarsi nelle atmosfere, per apprezzarne lo stile e la musicalità. In questo caso, però, è stato altrettanto naturale ascoltare il disco per familiarizzare con i fantasiosi personaggi come il piccolo Jack, che ha un orologio a cucù applicato al cuore, o lo strampalato Georges Méliès, una sorta di Virgilio calato nei meandri dell’amore. Un percorso piacevole, bisogna ammetterlo, come lo è stata tutta la lavorazione, dalla stesura alla revisione, aspetto tutt’altro che secondario.
L’ascolto dell’album si è rivelato utile in particolare per sbrogliare il passaggio in cui Malzieu dà vita a un botta e risposta fra Jack e la leggiadra e miope cantante andalusa, Miss Acacia, creando una sorta di tenzone amorosa fra i due, le cui battute provengono da una canzone. La musica è stata essenziale per modulare il ritmo, per stabilire l’organizzazione degli elementi della frase. In francese si hanno rime e assonanze create soprattutto a partire dai sostantivi, che ruotano perlopiù attorno al passionale campo semantico del “fuoco”. Generalmente, in italiano, gli stessi sostantivi non rimavano fra loro, quindi per preservare le immagini evocate, che ricorrono nel romanzo accresciute di valenza metaforica, e mantenere lo stesso andamento ritmico, ho lavorato sulle forme verbali: i verbi sono stati trasformati in sostantivi o locuzioni, come in “J’ai perdu mes lunettes, enfin j’ai pas voulu les mettre, elle me font une drôle de tête [...]”, “Ho perso i miei occhiali, ma l’ho fatto per dispetto, con loro il mio visetto [...]”, ottenendo l’assonanza “dispetto/visetto”; oppure sono stati spostati alla fine dei versi, un espediente modesto che tuttavia ha consentito di perseguire la nostra finalità. “Oh mon petit incendie, laissez-moi croquer vos habits [...] les recracher en confettis pour vous embrasser sous une pluie”, “Piccolo incendio mio, ti divorerò il vestito, [...] a pezzetti lo sputerò e nella pioggia di coriandoli ti bacerò”.
Fin dall’incipit si ha la percezione che anche il cinema rivesta un ruolo di primo piano nell’immaginario dello scrittore (è quasi inevitabile pensare alle storie visionarie di Tim Burton) e infatti non è un caso che Luc Besson abbia deciso di trarre un film da La meccanica del cuore. Il bianco trasparente dei fiocchi di neve, del ghiaccio che riveste ogni cosa e “paillette” – ricopre di paillette – il corpo dei gatti, le lacrime della giovane madre di Jack che sono come perle di una collana spezzata, e poi al contrario i colori sgargianti, la solarità dell’Andalusia e l’oscurità spettrale del treno fantasma: sono tutte pennellate di grande impatto visivo, che è indispensabile salvaguardare perché, forse più di certi episodi, hanno la capacità di imprimersi nella mente.
La levità delle creature ritratte, degli epiteti impiegati – lei “scintilla”, con “le caviglie da pulcino” – rivaleggia con la violenza del sentimento amoroso, meccanismo lacerante quasi come un’“enorme acacia che [...] cresce fra i polmoni”, come un ingranaggio da estirpare. Questo alternarsi porta a una continua mediazione fra una lingua a tratti eterea, pasciuta di vezzeggiativi e una lingua cruda e molto fisica, mitigata da garbate notazioni ironiche sulla natura maldestra dei due innamorati. È come se incessantemente si togliesse materia da una parte per impastarla di nuovo e aggiungerla altrove, si dipingessero le atmosfere diafane o cariche “di pece” di una storia che sfugge al tempo.