Se abitualmente l’esperienza della traduzione di un testo è un viaggio perlopiù solitario, nel dialogo silenzioso con la pagina, nel faccia a faccia assiduo e muto del traduttore con gli enigmi della parola, l’esperienza della raccolta di racconti di Kamel Daoud pubblicata nel settembre 2013 da Casagrande è stata una bellissima avventura condivisa. È una traduzione popolata, affollata, una traduzione passata tra tante mani, sfiorata da tanti occhi, che ha viaggiato in molte case prima di riecheggiare, sonora, nel bel Teatro Sociale di Bellinzona dove alcuni brani sono stati letti, quasi in anteprima, in occasione dell’edizione 2013 del Festival Babel, dove l’autore era fra gli ospiti.
Il viaggio di questo testo comincia nell’inverno del 2012 ad Algeri, nelle chiacchiere con i due editori di Barzakh, che pubblicano Daoud. Sono andata a trovarli per conoscere il loro lavoro e parlare di Babel 2013. Quando ci salutiamo, mi lasciano qualche libro. Sull’aereo del ritorno leggo le prime righe del primo racconto. Una settimana dopo comincio a tradurlo con le studentesse dell’ultimo anno di specializzazione dell’Isit di Milano. Decidiamo di cambiare il programma del semestre, perché questa esperienza ci entusiasma: siamo felici di lavorare finalmente su un testo che uscirà dalle aule della scuola per compiere il viaggio verso i lettori, con una bella sosta in uno dei più importanti appuntamenti culturali autunnali, non solo per i traduttori, il Festival Babel di Letteratura e traduzione. Per rispettare i tempi, ci imponiamo un calendario spietato che azzera vacanze di Pasqua e fine settimana con i fidanzati. Solo così riusciremo ad avere il libro pronto per luglio, affinché possa andare in stampa a settembre, in tempo per Babel.
Siamo in cinque e ciascuna di noi si occupa di un racconto (o di metà racconto, nel caso di un testo particolarmente lungo): le lezioni si trasformano ben presto in frenetici laboratori di discussione. Ognuna ha le sue grane, i suoi inciampi, i suoi smarrimenti, e insieme procediamo a cercare di gettare luce in un testo ad alta densità metaforica, spesso ambiguo, disseminato di intertestualità, di riferimenti alla storia e all’attualità dell’Algeria. Siamo solidali e severe, le letture incrociate ci aiutano a dare la caccia alle sviste nonché alle iper-interpretazioni che sono immancabilmente in agguato in testi tanto polisemici. Traduciamo a casa e nelle ore di lezione discutiamo, apriamo le finestre della pagina facendo entrare l’aria di tutte.
A giugno tutti i testi sono pronti, arriva la canicola e mi chiudo in casa, nel silenzio ora. Perché l’ultimo atto è la messa a punto di un ritmo, tanto difficile da modulare quando giunge da molte voci diverse. Venti giorni di rilettura ossessiva, qualche ultimo scambio di pareri con le altre traduttrici e poi via, si stampa. E un mese dopo le nostre voci riecheggiano nel bel Teatro Sociale di Bellinzona, per una lettura pubblica in presenza dell’autore che ci dà brividi di emozione.
Yasmina Melaouah
Tradurre il racconto che mi è stato assegnato, è stato come buttarsi dall’aereo insieme al protagonista e vivere con lui la caduta, cercando di non perdersi nei meandri dei suoi pensieri. L’autore usa uno stile vorticoso, gioca con la lingua e la spinge al limite, inizia i discorsi, li interrompe a metà per poi riprenderli più avanti. Mantenere il ritmo della prosa, dove si alternano periodi molto lunghi e frasi quasi telegrafiche, così come tenere i numerosi riferimenti – impliciti o espliciti – alla cultura araba, alla religione islamica nonché alla storia dell’Algeria, è stata un’impresa affascinante. La stretta collaborazione, le riletture dei testi e il confronto fra traduttrici si sono rivelati strumenti preziosi che hanno reso possibile tutto questo, dando coerenza e continuità al testo.
Elisa Orlandi
Tradurre Daoud è come andare sulle montagne russe, un attimo prima sei sicura di te e ben convinta delle tue scelte e un attimo dopo sei in preda a mille dubbi. Lavorando in gruppo questa sensazione è amplificata, specialmente quando il revisore è presente e discute con noi strada facendo. Lavorando su un racconto in tandem, poi, ogni capitolo era sottoposto a un triplo controllo: quello dell’altra persona, quello del gruppo e quello del revisore, e questo ha permesso ogni volta di far emergere dettagli, riferimenti, spunti che prima erano passati inosservati. Per lavorare su un autore come Daoud, che riempie i propri testi di riferimenti intertestuali alla storia, alla cultura, all’esperienza religiosa del proprio Paese, credo che il metodo del continuo confronto sia il migliore, perché il rischio di non cogliere qualcosa è molto alto e l’unico modo per evitarlo è la continua rilettura da parte di chi da un lato conosce l’autore perché ci sta lavorando sopra ma dall’altro non è così dentro il testo.
Elisabetta Di Stefano
Il racconto Gibrîl al cherosene narra le vicende – se di vicende si può parlare – di un uomo che sogna di far volare un paese che al contrario è ben ancorato a terra. Si tratta perlopiù di un discorso interno dell’autore, disseminato di riferimenti religiosi e filosofici. Ecco la difficoltà nella traduzione: riuscire a captare tutte le insidie che il nostro caro Daoud ci ha lasciato lungo la strada; una serie di briciole che bisogna seguire per evitare di perdersi, un labirinto pieno di rimandi e nozioni, che non sempre il traduttore conosce. La linearità delle frasi si contrappone al pensiero, talvolta contorto ed enigmatico, dell’autore. Il confronto all’interno del gruppo di lavoro è stato l’unico modo per trovare uno spiraglio di luce nell’oscurità di quei pensieri.
Diana Pasina
Non è facile condensare in poche righe le innumerevoli sventure di una traduttrice in erba alle prese con La prefazione del negro. Innanzitutto dire che Daoud sia visionario è un eufemismo: immagini inedite, poetiche, bizzarre affollano le pagine del racconto. Ripetute allucinazioni perseguitano la malcapitata che, oltre ad averne turbato il sonno, rischia di vedere i rari luoghi comuni presenti nel testo come brillanti trovate del genio di Daoud.
Poi Daoud parla arabo. Davvero: è la sua prima lingua. E l’arabo si legge sotto il francese: traspare da periodi lunghissimi, scombinati e affastellati che, ahimè, si è talvolta costretti a sbrogliare in italiano. I riferimenti extratestuali, pescati nei luoghi più improbabili - dai miti ancestrali, ai testi sacri, ai registri di guerra e chi più ne ha più ne metta - sono nascosti ovunque. Così ci si trova a digitare su Google le frasi più strampalate: chissà che non siano citazioni!
Insomma, a volte traducendo La prefazione del negro mi è venuto il sospetto che Daoud avesse un conto in sospeso con qualche ignaro traduttore. Di certo non mi ha annoiata, anzi, nonostante le insidie, è riuscito a farmi amare il testo, a coinvolgermi e a guidarmi nel flusso vorticoso di una narrazione ipnotica e delirante. Traducendo La prefazione del negro ho cominciato a capire quanto il nostro mestiere sia al tempo stesso appassionante e faticoso: una scoperta continua, accompagnata dalla consapevolezza di perdere sempre qualcosa.
La rilettura e la “limatura” sono state fondamentali nel trasporre uno stile così insolito. In questo senso lavorare a più mani sulla stessa raccolta, è stato un enorme vantaggio reciproco. In un testo così ricco di rimandi e di possibili interpretazioni il confronto è servito soprattutto a tornare con i piedi per terra quando si rischiava di volare troppo lontano.
Gioia Sartori