Le 12 sedie

Argomento: Romanzo
Pubblicazione: 6 agosto 2025

Mi sono avvicinata alla traduzione sin dalla scelta della tesi universitaria e in seguito attraverso la revisione di testi tradotti in un’esperienza di redazione, confluita poi nella lunga avventura di traduzione di opere di autori contemporanei, con cui ho di norma cercato un contatto, un confronto e con cui ho sempre dialogato.

Tradurre insomma è stato sempre un atto di totale avanscoperta, di consapevolezza di dovere trovare la prima voce della lingua di arrivo. Ma tradurre un classico è altra cosa. È compiere e allo stesso tempo offrire un viaggio su una macchina del tempo. Il combustibile per il trasporto è l’intero bagaglio di conoscenze e di esperienze che il traduttore ha fin lì accumulato. Gli servirà tutto quello che sa e gran parte di quello che deve ancora imparare, per attraversare l’intero libro e, in un senso molto speciale, ritrovarsi.

Le 12 sedie per l’appunto è un classico, forse il classico assoluto della letteratura sovietica; lo è in quanto pietra angolare di quella cultura che negli anni fecondi e tragici, immediatamente successivi alla rivoluzione del ’17, si va formando sulle ceneri ancora calde di un mondo che non c’è più e tra le fiamme nascenti di un cosmo sociale che pur nuovo non si spiega senza conoscerne i precedenti. È in questa fucina, in primo luogo culturale, che si va delineando come specie squisitamente letteraria, costituita di tipi e caratteri inconfondibili, l’homo sovieticus. Per tradurre un’opera nata in un contesto simile occorre conoscere bene la storia russa, e ristudiarla in quel breve e frenetico lasso di tempo che è passato sotto il nome di “anni della Nep” in riferimento alla prima politica economica rivoluzionaria dove sopravvisse, per poco, un modello misto di società non ancora del tutto collettivizzata. E ancora occorre tener conto degli antecedenti critici, culturali e traduttori in cui è depositata la storia, in questo caso la peripezia del libro.

Se c’è un atto più insidioso di tradurre è ritradurre. Gli autori contemporanei di solito si traducono per la prima volta in una seconda lingua. I classici invece si ritraducono, perché di un’opera storicamente conclamata esistono per forza versioni precedenti. Pubblicato nel 1928, Le 12 sedie riscuote un enorme e rinnovato successo che si riflette nelle numerose edizioni, traduzioni, adattamenti cinematografici, depositando nella lingua e cultura russa vicende proverbiali, modi di dire, archetipi, parodie e tipi umani. Non c’è russo che non lo conosca e non abbia pianto dal ridere leggendolo. Al contempo non ci sono in occidente libri coevi paragonabili per potenza di emanazione sulle culture popolari nazionali, si dovrebbe arretrare sino a Cervantes o ai Promessi sposi ma slittando di era e non con un’analoga intensità di radiazione e influenza culturale, fin antropologica. Ciò detto, si comprende all’istante che la sfida per un traduttore si complica.

Ritradurre significa attraversare le traduzioni precedenti, magari anche ben condotte, senza lasciarsi ammaliare né mettersi a contrattare oboli di passaggio, per dare un contributo proprio e originale. Trattandosi poi in questo caso di un’opera che muove dapprima il sorriso quindi l’aperta risata, si dovrà indagare se quel riso offerto ai lettori con la prima edizione sia ancora vivo e risonante, dopo quasi un secolo, alla sensibilità di un lettore attuale. E domandarsi se sì, il motivo.

Quanto alle versioni precedenti, la domanda pleonastica sarebbe: perché farne un’altra? Domanda che si dovrebbe girare all’editore, non fosse che qui l’editore è Voland (il nome del diavolo in persona del Maestro e Margherita) che ovviamente risponde mettendoci la coda: perché con questa traduzione si propone per la prima volta al pubblico italiano la versione integrale delle 12 sedie in una traduzione condotta sul testo del 2017 a cura di Odesskij e Fel’dman, dove sono ripristinati con le correzioni redazionali e autoriali anche tutti i tagli inferti dai censori sovietici nei decenni di sforbiciate che seguirono l’assordante indifferenza della critica che con un plumbeo silenzio accolse un’opera divenuta subito popolarissima, in patria e all’estero.

Per venire all’efficacia umoristica, a soccorrere il traduttore qui è l’autentica classicità dell’opera e alla domanda se il riso che questa custodisce sia ancora vivo e risonante, risponde il tratto intrinseco della classicità: la resistenza al tempo. Ciò che resiste al cambiamento, di costume, d’epoca, di contesto, è la natura umana letta e rappresentata senza edulcorazioni, falsi pudori o estetismi, indagata e restituita nella vulnerabile meschinità esistenziale, nell’antinomia tra condizione e aspirazione, insomma nel bene e nel male, soprattutto nel male, ma osservato quest’ultimo senza moralismo e senza accanimento, come il cascame naturale dei vizi e dei vicoli ciechi del presente, della Storia che assedia gli individui sino a travolgerli.

È allora che un testo classico funziona come una macchina del tempo. Il romanzo Le 12 sedie offre il biglietto per un viaggio immersivo in un’epoca altra – il breve e illusorio scorcio della NEP alle soglie del truce abisso delle purghe staliniane – lungo una peripezia rocambolesca – la caccia affannosa di Ostap Bender e Ippolit Vorobjaninov alla ricerca del tesoro di brillanti cucito in una sedia – in un microcosmo di personaggi e situazioni non così lontano e in fondo familiare in quanto profondamente umano. E tuttavia il romanzo deve il suo carattere fondativo, la sua pronuncia così schietta, icastica e vitale all’essere nato insieme al mondo che racconta, laddove solo le letterature iniziali di un’epoca hanno un tale potere, una sorta di genuinità incontaminata che ne assicura la durata, la perennità, la comprensione dei posteri.

Quello dei due autori Il’f e Petrov, entrambi ucraini, eredi e fautori dell’umorismo odessita che nutre la vena ilare e derisoria viva nella letteratura russa da Gogol’ a Bulgakov, è un libro specchio di un’epoca incerta e pericolosa, vibrante di cambiamenti e ambiguità, sospinta dal declino di un passato che si ricicla come può nei goffi trasformismi del presente, intossicata dalla cupidigia, dall’illegalità e dalla corruzione. Nei suoi tratti di universale umanità e affanno, pur con tutti i distinguo storici del contesto, quei tempi non sono dunque così dissimili dai nostri.

La risposta quindi riguardo all’efficacia umoristica del libro è che il sorriso che custodisce si rivela ben vivo e presente, ponendo al traduttore il rompicapo di come restituirlo senza smorzarlo o snaturarlo al lettore italiano dei giorni nostri.

La scelta in questo caso è stata un’opzione di fedeltà: non ho voluto addomesticare il testo con l’intento gramo di renderlo più commestibile o chiaro al lettore italiano, l’humus testuale è stato perlopiù rispettato nella sua originalità semantica e significante, talvolta adattato per migliore la resa espressiva, ritmica, soccorso laddove necessario da un ricco ma non soverchio apparato di note, dal sommario dei personaggi e anche dalla scanzonata nota biografica autografa dei due autori.

Ciò detto, ritradurre un classico significa in una certa misura “rinfrescarlo”, dato che anche la lingua dei traduttori invecchia e non sfugge al tempo, né a quella patina letteraria che può allontanarla dalla verosimiglianza. La mia preoccupazione maggiore quindi è stata garantire la fluidità della prosa e la vivacità della lingua, arieggiare la stanza, insomma, rispolverare l’argenteria, ma senza spostare una sedia.