Una salute di ferro

Argomento: Romanzo
Editore: Polidoro, 2024
Pubblicazione: 6 agosto 2025

Per perdersi ci vuole una salute di ferro
Note di un traduttore smarrito (con gioia) nel labirinto di Pablo Casacuberta

Ci sono libri che ti obbligano a imparare una nuova lingua, pur restando tecnicamente nella tua. Una salute di ferro di Pablo Casacuberta – pubblicato in Italia da Polidoro editore – è uno di quei testi che, da traduttore, ti accolgono con un sorriso sornione per poi condurti, un passo alla volta, in un labirinto linguistico in cui nulla è davvero come sembra. Eppure, non ci si sente mai perduti del tutto: c’è sempre un’eco, una voce narrante che ti guida, anche quando si smarrisce lei stessa.

Casacuberta, scrittore, artista visivo, regista e designer uruguayano, è una di quelle figure creative impossibili da inquadrare. La sua scrittura riflette questa natura proteiforme: è scivolosa, ironica, surreale, eppure sempre aderente a un’umanità molto concreta, spesso tragicomica. Nato in Uruguay, Casacuberta ha una formazione eclettica: ha esplorato la scrittura, la musica, la regia, e anche il suo approccio alla letteratura è sempre stato radicalmente interdisciplinare: ha la capacità di mescolare con disinvoltura il serio e il faceto, l’astratto e il concreto, riuscendo a sfiorare temi filosofici e esistenziali senza mai prendersi troppo sul serio. È un autore che sa giocare con il linguaggio in modo profondo e allo stesso tempo ludico, portando il lettore a mettere in discussione ogni certezza senza mai smettere di divertirsi. Il suo stile, pur essendo essenzialmente ironico, non è mai superficiale: dietro la risata si nasconde una riflessione inquieta sulla condizione umana, sulla fragilità della percezione e sull’impossibilità di raggiungere una verità assoluta.

Una salute di ferro, come molte altre opere di Casacuberta, può essere letto come un romanzo di formazione nella migliore tradizione tedesca, ma anche – e forse soprattutto – come un romanzo filosofico. Sotto l’apparente leggerezza dello stile, si nasconde un confronto costante con temi profondi: il confine incerto tra scienza e religione, il ruolo dell’illusione nella costruzione della realtà, il peso del destino e la tensione verso il libero arbitrio. Tutto questo, però, non viene mai trattato in modo teorico o pedante. Casacuberta preferisce il travestimento ironico, la via obliqua: ogni interrogativo esistenziale emerge dal quotidiano, da un dettaglio insignificante, da un malinteso, da un sintomo frainteso.

Il protagonista stesso, Tobías, è un filosofo involontario, che riflette sul mondo con strumenti storti, ma con una lucidità che sorprende. Le sue elucubrazioni, spesso comiche e iperboliche, sono in realtà esercizi di pensiero puro, anche quando scivolano nel delirio. C’è qualcosa di profondamente umano – e dolorosamente riconoscibile – nella sua fatica di interpretare il mondo, di assegnare senso a ciò che accade, di decifrare segnali che forse non significano nulla. È in questo oscillare continuo tra profondità e assurdità che il libro trova la sua forza: perché riesce a parlare del caos della vita con leggerezza, senza mai banalizzarlo.

Tradurre questo libro ha significato quindi soprattutto una cosa: seguire il ritmo mentale del protagonista, entrare nella sua testa senza perderne la bussola (anche quando lui stesso la smarrisce). Restituire tutto questo in italiano ha richiesto una continua negoziazione tra fedeltà al testo e necessità di leggibilità. L’umorismo, in particolare, è stato il terreno più scivoloso: è un umorismo spesso implicito, secco, figlio di una certa tradizione rioplatense, e ho dovuto trovare per ogni passaggio un equilibrio tra senso e suono, tra tono e contesto.

In alcuni momenti ho avuto la sensazione di dover tradurre non le parole, ma i pensieri stessi, prima ancora che si facessero linguaggio. Frasi lunghissime, cariche di subordinate, digressioni, immagini mentali: piccoli flussi di coscienza che non si lasciano incasellare facilmente. Eppure, proprio in questa complessità, ho trovato il cuore del libro. Una scrittura che non ha paura di perdersi, che anzi fa dello smarrimento una forma di conoscenza. Tradurla è stato come camminare a occhi chiusi in una stanza piena di mobili: ogni tanto ci si urta, ma poi si riconoscono le forme.

A colpirmi fin da subito, leggendo Una salute di ferro, ma anche gli altri suoi romanzi (ad esempio Qui e ora, sempre pubblicato da Polidoro), è stata la capacità di Casacuberta di rendere straordinaria la banalità del quotidiano. Il protagonista – un uomo di mezza età, ipocondriaco, sospettoso, attraversato da un’inquietudine costante e da una vitalità tutta mentale, spesso in contrasto col corpo che lo ospita – si trova immerso in un mondo che sfugge al controllo: un mondo fatto di piccole rovine quotidiane, malintesi sociali, rovesciamenti grotteschi. Non succede nulla di eclatante, eppure tutto sembra sul punto di esplodere. O forse è già esploso, e quello che leggiamo è il lento scivolamento nei detriti.

È un romanzo che si regge sulla voce, più che sulla trama. Una voce nevrotica, brillante, a volte insopportabile, ma sempre lucidissima nel suo delirio. Il protagonista racconta, riflette, divaga, analizza ogni gesto, ogni parola, ogni oggetto. C’è qualcosa di kafkiano, certo, ma anche qualcosa di comico alla Woody Allen, con una punta di malinconia da letteratura mitteleuropea trapiantata a Montevideo e un anacronistico tono dickensiano.

Uno degli aspetti più affascinanti del libro è proprio questa sua ambiguità: non sai mai se stai leggendo un romanzo comico travestito da tragedia o una tragedia travestita da commedia. Il corpo, la salute, l’identità maschile, il rapporto con il tempo che passa: tutto viene scandagliato, dissezionato, spesso ridicolizzato. Ma dietro il riso, c’è sempre un’ombra. Casacuberta ha l’intelligenza (e la crudeltà) di non consolare mai il lettore.

Per questo, quando l’ho letto, ho deciso di proporlo a Polidoro e di tradurlo senza esitazione – ma con un certo timore. Sapevo che sarebbe stato un lavoro complesso, ma anche un’opportunità rara: un esercizio di attenzione e di ascolto. Non solo verso il testo, ma verso ciò che scorre sotto la superficie del linguaggio: le esitazioni, le paure, le ossessioni che Casacuberta riesce a incastonare dentro frasi apparentemente leggere, ma in realtà densissime di senso. È un libro che ti obbliga a rallentare, ad accettare la digressione, a fidarti dell’instabilità.

In certi momenti, la sensazione era quella di tradurre un pensiero prima ancora che diventasse frase: come se il testo si stesse ancora formando, e il mio compito fosse quello di accompagnarlo nella sua metamorfosi in italiano. Non è stato sempre facile, ma è stato sempre vivo. E se c’è una cosa che mi porto dietro da questo lavoro, è proprio la consapevolezza che tradurre non significa solo passare un contenuto da una lingua all’altra, ma accettare di entrare nel ritmo di un altro cervello, abitare la sua voce, e poi restituirla con onestà, con rispetto, e con un pizzico di incoscienza.