Un problema di identità. In fondo, cosa ci impedirebbe di ridurlo a un problema di identità? Almeno questa è una delle categorie "superiori" cui spesso si ricorre quando ci si ritrova a dover iscrivere l'occorrenza di un tatuaggio o di un intervento atto a modificare il corpo in un'interpretazione che trascenda la nuda esperienza estetica. In un'intervista di qualche anno fa l'antropologo David Le Breton, che all'argomento ha dedicato il suo Signes d'identité (2002), individua alcuni punti chiave per quelle che definisce anche come "protesi identitarie". Innanzitutto la percezione del corpo come materia grezza, e il conseguente desiderio di intervenire personalmente a dargli una forma che sia più propria. In una parola: ricrearsi. Successivamente, cambiare corpo per cambiare vita; un rito di passaggio (senza forzose connotazioni tribali) attraverso il segno corporale che ha il fine di provare a sé stessi il fatto di esistere, di esserci. Legato a quest'ultimo, infine, l'esperienza del dolore, qualcosa che guai se non ci fosse. In tal caso infatti non si avrebbe "la memoria dell'evento, la prova della sua solennità". Ma proviamo a lasciare da parte il dolore fisico, che nella visione della Kanehara relativa al testo di cui stiamo parlando ha la semplice funzione di mettere a tacere altri dolori, di natura più profonda.
Una delle linee portanti della narrazione è piuttosto il continuo interrogarsi della protagonista, Luì, sul significato da attribuire al desiderio di modificarsi la lingua in un'appendice bifida, di tatuarsi dragoni e kirin sulla schiena. Un senso che però non viene rintracciato, al contrario monta il dubbio che tutto questo, di significato, ne abbia davvero poco. Al lettore non viene nemmeno dato di sapere se l'operazione sarà portata a fondo, e alla fine Luì vorrà che agli animali tatuati sulla schiena vengano disegnate le pupille, cosa che in precedenza aveva evitato di fare per paura che volassero via da lei.
La curiosità della protagonista è un dato in comune con l'autrice. Kanehara incrocia il mondo del tatuaggio e si indaga sulle sue ragioni. Se quanto anticipato corrisponde al vero, il prossimo romanzo dovrebbe riguardare una ragazza che vive assieme a un uomo con il complesso di Lolita.
Nella lingua giapponese esistono pochissimi vocaboli cui possa essere dato il valore di una nostra parolaccia. In giapponese il turpiloquio si ottiene attraverso deformazioni fonetiche, aggiunte di suffissi, e sopra ogni cosa dal tono complessivo dell'atto linguistico. Ciò non toglie che un interloquire scurrile in giapponese abbia la stessa funzione che viene attribuita alle nostre parolacce. A maggior ragione nel caso di Luì, ragazza pulita ma dal parlato molto mascolino, in una cultura dove invece le caratteristiche di distinzione sessuale nel linguaggio sono molto accentuate. Una resa fedele necessitava di conseguenza l'abbandono di qualunque remora a riguardo, e l'uso di sproloqui ogni qual volta invocati dall'atmosfera generale. Inoltre: la lingua giapponese non ha una grammatica nel senso che noi gli possiamo attribuire. Per ovvie ragioni di trasmissibilità, si sono adottate forzosamente alcune categorie grammaticali dell'occidente a una lingua che ne faceva volentieri a meno. Di conseguenza, ferree regole di concordanza o di coerenza di tempi verbali male si accompagnano a una resa fedele del testo. In una frase giapponese, se l'atto di uscire in estate da un interno può essere descritto al "passato" (uscii), la successiva sensazione di caldo - poiché vivida, immediata - può tranquillamente presentarsi al "presente" (fa caldo). Nei limiti imposti dalla consecutio, sono del parere che l'italiano offra a sufficienza la possibilità di giocare con i tempi verbali, come accadrebbe ad esempio in un brano a flusso di coscienza. Se si riesce a fare in modo che il lettore se ne accorga il meno possibile, e se si riescono ad equilibrare efficacemente le connessioni tra frase e frase, si può godere della giocosità instabilità di una lingua che conosce poche regole se non quelle dettate dalla volontà di trasmettere una data sensazione nella maniera più sensorialmente esatta.
Due parole in chiusura su alcune scelte terminologiche. Un aggettivo ricorrente per descrivere Ama, il compagno di Luì, è darashinai, nell'uso comune della lingua solitamente accompagnato a un apparire, a un modo di vestire trasandato. Applicato però al suo viso, alla risata, al modo di parlare, ho trovato più indicato osare il termine "dinoccolato", sia perché a innervosire la protagonista non è l'essere trasandato ma la mancanza di saldezza che emana dall'insieme di Ama, sia perché la sensazione di darashinai viene evocata dal penzolare del labbro del ragazzo appesantito dai vari piercing che lo bucano. Il termine "fichetta" ha infine il compito di rendere l'espressione gyaru, dall'americano gal. Lasciarla in originale, e scrivere in nota che si riferisce a ragazze tra i diciotto e i trent'anni che possono volere, secondo l'età, apparire più giovani o solo apparire il più possibile sfogando una smania di acquisti mirata a ottenere un'eleganza forzata e personalissima di vestiti e accessori (e preoccupandosi solo di quello) ma senza mai arrivare a sfiorare l'eccesso, avrebbe avuto assai poco senso senza un referente visivo. Lo avrebbe un termine come borghese senza l'appoggio del suo referente ideologico?