The James Dean Garage Band raccoglie i racconti presenti in un volume che uscì negli Stati Uniti nel '95 col titolo The Ring of Brightest Angels Around Heaven. La novella che dava il titolo alla raccolta pubblicata in Italia con il titolo La più lucente corona d'angeli in cielo (minimum fax), in un volume a parte, cosa che Moody voleva fare da tempo. Restavano dunque altri nove preziosissimi racconti da pubblicare (cui, sempre per volontà di Moody, è stato aggiunto Circolazione). E fin qui tutto bene. Una raccolta di racconti dello stesso autore. Ci si aspetterebbe quindi, oltre a un'atmosfera e a dei concetti ricorrenti, anche un'omogeneità di stile. E invece no: dal punto di vista stilistico tradurre JDGB è stato come tradurre un'antologia di scrittori, ognuno con una sua voce ben distinta. Si passa dalla voce burocratica del perito legale che registra le telefonate della moglie al frasario frammentario di Lucy, che si è calata settanta acidi fondendosi cervello e coerenza linguistica; dalla voce intima e nostalgica de "La rete" che si snoda, con le sue riflessioni sui baci, attorno alla Sedicesima strada di New York, al flusso ininterrotto di "Trattamento", che parla di un film ed è letteralmente come "leggere" un film. La voce del paradosso, delle potenzialità inattuate della Storia che Moody, per scommessa con un amico, sceglie di indagare: dopo l'incidente che nella realtà gli fu fatale, James Dean si alza, illeso, e si crea una nuova vita in un paesino sperduto dove fonda una "garage band", appunto. La voce della follia che si impossessa di Pippin, mozzo nero ripreso da Moby Dick, che Moody segue nelle ore passate a galleggiare nell'immensità dell'oceano in attesa di essere salvato. La voce del paranoico che rintraccia nell'Apocalisse di San Giovanni dei riferimenti espliciti alle proprie tristi vicende d'amore. La voce sottile e lineare di un figlio bugiardo che si confessa in "Tromba d'aria" (uno dei racconti di Moody preferiti da David Foster Wallace). La voce dello scrittore che si relega nelle note a piè di pagina di una bibliografia - "Fonti primarie" - che è in qualche modo biografia.
Tradurre Moody, poi, significa dover fare i conti con una scrittura che, al contrario di molte altre, è musicale, più che cinematografica. Persino in "Trattamento" che con il cinema si confronta direttamente - nel senso che narra a parole la visione di un film di cui è protagonista il narratore stesso - la predominante stilistica è quella del ritmo, di un flusso ininterrotto di parole che, rinunciando alla punteggiatura, trovano un ritmo anomalo e loro, utilizzando come uniche boe attorno a cui far girare il senso dell'azione i corsivi, in questo caso riservati ai gesti esterni al film: le inquadrature della telecamera, le riprese, gli sguardi degli assistenti di produzione. L'autore ha più volte dichiarato quanto la musica sia stata importante per la sua formazione e attività di scrittore, e senza dubbio lo si sente mentre lo si traduce. Il testo di Moody vuole essere letto come uno spartito musicale, con battute, chiavi, pause e contrappunti (con i famosi corsivi moodiani che hanno la funzione del pedale del forte) che seguono sì le regole della grammatica, ma che a tratti le mettono da parte per inseguire un suono nuovo, un significato che per definirsi ha bisogno di un utilizzo funambolico delle parole. Questo vale principalmente per "Pip alla deriva", racconto straordinario in cui si ha la sensazione di annegare, di annaspare fra le parole, mentre il testo, nel suo incedere verso la follia di Pippin e, contemporaneamente, verso il precipizio della agrammaticità, si scioglie e disarticola fino a sembrare un corpo d'acqua, un fluido, in cui immagini visionarie e incommensurabili dimensioni marine penetrano nella testa del povero mozzo fino a farlo impazzire.
Dal punto di vista tecnico, tradurre Moody mi ha ricordato un esercizio che facevo quando frequentavo un corso di disegno a UCLA: il professore proiettava una diapositiva sulla parete dell'aula. Era completamente sfocata e noi dovevamo cominciare a disegnare quello che vedevamo, in pratica forme vaghe e annebbiate. Poi, lentamente, la metteva un po' più a fuoco e ci lasciava qualche altro minuto per risistemare il disegno. E così via, era un processo molto lento, ci voleva più di un'ora per passare dall'immagine sfocata iniziale all'ultima, perfettamente nitida, quando finalmente vedevamo con esattezza quello che avevamo disegnato per più di un'ora. E il risultato era sempre potente. E così con Moody: c'è sempre una prima fase di cecità, di puro ascolto, un momento in cui sospendo il giudizio e butto giù una versione rozza su cui passerò e ripasserò molte volte per arrivare a quella che sarà la traduzione stampata. A mio parere, infatti, se è vero che lingue diverse hanno regole e forme diverse, e che quindi il passaggio da una lingua all'altra richiede un distacco, è anche vero che un testo originale - soprattutto quando viene dalla penna di un grande autore - ha già in sé tutto ciò che serve, una coerenza interna che è fatta principalmente di suoni e immagini e scelte espressive che devono restare, in qualsiasi traduzione. E visto che del modo di utilizzare le parole di Moody ho fiducia cieca, so che se all'inizio accetto di seguirlo senza resistenze, il suo testo mi porterà nel posto giusto. E sarà da lì poi che comincerà il mio lavoro. Lavoro che nel mio immaginario è simile a quello dell'affilatore di coltelli: il tentativo di rendere precisa e tagliente ogni parola e forma dell'italiano così come era nell'originale. Quel primo passo però l'avrò fatto alla cieca, in una prova di fiducia verso l'autore.
Con JDGB assistiamo a un Rick Moody giovane che cerca, si mette alla prova, calibra le forze e suona una sua musica a tratti struggente, a tratti ironica, a tratti paradossale, ma sempre volta ad addentrarsi nel sentimento dell'umano, a spogliare tanto il narratore quanto i personaggi di quel guscio che racchiude la polpa tenera e imperfetta di tutti noi. Sono queste le ultime parole di Pip, salvato e perduto: e mi sono offerto ad Ahab senza chiedergli prezzo prendi il mio guscio spoglio così che possa sapere che la mia malattia non è soltanto mia non è soltanto mia.