Traduzione da: francese | Daniel Pennac | traduttore: Yasmina Mélaouah | editore: Feltrinelli (2004)
Ai primi di febbraio pioveva spesso a Milano, le giornate erano buie e indaffarate, le settimane una stralunata corsa a ostacoli tra il lavoro, la famiglia, preziosi ritagli di tempo per amici e letture.
Il sabato un'oasi silenziosa, una tregua lenta, un tempo indisponibile per impegni lavorativi. Quando un venerdì pomeriggio è squillato il telefono e ho sentito la voce piena di entusiasmo di Daniel che mi diceva: "Ciao, sono a Genova, avresti voglia domani di venire qui che mi piacerebbe leggerti una cosa?" sulle prime, ebbene sì, sulle prime ho pensato che l'indomani era sabato, che non volevo mettere la sveglia, che non volevo che il lavoro... che in fondo la famiglia… che va bene tutto però… Ma quanta curiosità, però, quanta allegria improvvisa nel pensare di lasciare la mesta pioggerellina milanese e andarmene a Genova a sentire Daniel raccontarmi, in anteprima, una storia… Così eccomi qua. Al Porto Vecchio, stessa pioggerellina, ma una luce selvatica come solo Genova sa regalare, davanti ai vicoli, seduta accanto a Daniel in una saletta del suo hotel. Tra le mani lui ha una cartelletta azzurra, dentro una cinquantina di cartelle dattiloscritte. Io mi metto comoda, lui comincia a leggere. È la primissima versione di Merci. Un monologo pieno di forza, di rabbia, di ironia tagliente e di malinconia. legge per quasi un'ora. Io ascolto in silenzio. I commenti per dopo. Lui legge e io tremo pensando, come sempre, a come farò. A come riuscirò a cavarmela, questa volta, di fronte al torrente impetuoso di questa tirata pensata per essere recitata in teatro, ancora una volta radicalmente diversa dai suoi testi precedenti. Un'altra sfida, un'altra avventura. Parliamo un po', dopo. Lui mi spiega il personaggio, mi spiega il tono, mi aiuta a decifrare le allusioni e i riferimenti. Torno a Milano in serata, con quella cinquantina di cartelle in borsa e una scadenza di consegna della traduzione del testo, che verrà pubblicato da Feltrinelli e messo in scena dal Teatro dell'Archivolto di Genova. Alla conversazione con Daniel, fanno così seguito le chiacchierate con Giorgio Gallione dell'Archivolto per riflettere insieme sulla natura di un testo nato per essere recitato. Un lungo monologo, retto da una fortissima tensione emotiva e tuttavia modulato secondo tonalità assai diverse, dall'ammiccamento seduttivo nei confronti del pubblico, a brutali scoppi di ira, all'ironia più crudele, a lunghi momenti di commozione quasi cristallina, in un ventaglio di registri che si succedono freneticamente nell'arco di un numero relativamente ridotto di pagine. Un condensato, insomma, di tutta la passione che vibra nelle pagine di Pennac e che la sua scrittura, frutto di un maniacale lavoro di revisione, di un acutissimo senso del ritmo e della parola, declina questa volta nella dimensione esclusiva dell'oralità. Questo è stato pertanto il mio punto di partenza. Oralità. Parlato. Un uomo e la sua voce. Il resto viene di conseguenza. Tutte le scelte, le sofferte libertà che mi prenderò discenderanno da questo. Faticoso percorso, quindi, per chi è da sempre abituato alla narrativa, alla parola scritta e silenziosa del romanzo, all'ascolto di ritmi tutti mentali, di geometrie verbali impalpabili. "Immagina di recitarle, le tue frasi," mi ripeteva al telefono Giorgio Gallione. Io immaginavo già un volto (Alessandro Haber? Stefano Benni?), una voce, per l'amaro creatore che, insignito di un premio alla carriera, pronuncia il suo discorso di ringraziamento. Mi prendevo mille libertà che abitualmente non mi sogno neppure di pensare per seguire il ritmo implacabile, agitato, nevrotico del monologo. Mi inventavo nomi di città strampalati per improbabili paesini francesi intraducibili, stanavo atroci tic linguistici della nostra desolata contemporaneità (l'orribile "assolutamente sì", "assolutamente no", che ormai imperversa anche quando si domanda solo se il tram su cui siamo saliti fa la tale fermata) per restituire vacuità di conversazioni telefoniche, mi arrampicavo su tutti i vetri disponibili per giocare sulle mille accezioni della parola "grazie". Intanto, come già con il suo ultimo romanzo Ecco la storia, Daniel rivedeva il testo, mi tempestava di infinite "versioni definitive", sempre più compiute, con una lingua dal respiro via via più ampio, dove la ruvida amarezza della prima versione si stemperava in una passione se è possibile più quieta, e il testo si faceva sempre più solido, più coeso. Scomparivano passaggi su cui la traduzione si inceppava, come a dimostrare, ancora una volta, che dove la traduzione non funziona c'è forse, sempre, qualcosa che non funziona nel testo originale. Un lavoro lungo e lento, un procedere millimetrico e parallelo di due testi contigui e insieme irrimediabilmente autonomi. Quando il lavoro era finito a Milano faceva già caldo. Ai primi di luglio tutti temevamo un'estate impossibile come quella del 2003. Invece è andata bene. E ai primi di settembre, di ritorno dalle vacanze, ho trovato le copie stampate di Grazie nella buca delle lettere.
Yasmina Mélaouah