Traduzione da: francese | Eric-Emmanuel Schmitt | traduttore: Alberto Bracci Testasecca | editore: E/O, 2004
Tradurre, come ben sa chiunque faccia questo mestiere, è soprattutto catturare lo spirito dell’autore e trasportarlo nella propria lingua perché il lettore di diversa nazionalità ne riceva le stesse sensazioni del lettore nella lingua originale. La buona traduzione, secondo me, è quella dove i termini, la costruzione delle frasi e la punteggiatura fanno, nella lingua d’arrivo, lo stesso effetto che nella lingua di partenza. Fedeltà assoluta al senso, dunque, ma senza l’ossessione della struttura d’origine. Quanto più una traduzione “vibra” in maniera diversa dall’originale, tanto più quella traduzione è mal riuscita, anche se magari si rivela un buon prodotto in sé (è il caso, a mio parere, della traduzione di Eco di Esercizi di stile di Queneau: troppo personale, troppo localizzata, troppo “esercizi di stile” del traduttore anziché dell’autore. Non me ne voglia il grande Umberto, del quale non ho letto altre traduzioni ma che apprezzo moltissimo come scrittore).
In quest’ottica, tradurre Eric-Emmanuel Schmitt è veramente divertente, perché scrive in maniera talmente semplice e universale che il traduttore può spaziare sull’intera tavolozza della propria lingua mantenendo quasi intatta la natura dell’originale e riuscendo, allo stesso tempo, a trasporre anche le più piccole sfumature. Per questo immagino, ma mi piacerebbe averne conferma dai colleghi foresti, che risulti bene in tutte le lingue.
Attenzione però, non è affatto una scrittura minimalista, tutt’altro. Questo signore dalla mente più che fertile, infatti, riesce a conciliare nelle sue trame pathos e distacco filosofico da ciò che racconta, di passare con estrema disinvoltura da momenti comici a momenti drammatici sul fil rouge di una sottile ironia che tutto pervade, di esibire una profonda e spietata conoscenza psicologica dell’animo umano ed esporcela con poesia, di prodursi in citazioni azzeccate senza mai passare da barboso intellettuale, il tutto tenuto insieme da un linguaggio (e questo ci riguarda direttamente) che è insieme erudito ed elementare, molto colloquiale. Se dovessi assimilarlo a una carta dei tarocchi, direi il Bagatto.
Proprio il tono colloquiale è la cosa che mi ha colpito di più e su cui si è concentrata la mia attenzione. Forse “colloquiale” non è il termine esatto, fa venire in mente una conversazione a due e non è così. Però è indubbio che la scrittura di Schmitt sia “parlata”, come se si stesse rivolgendo a un uditorio che è sempre lì e non si stanca mai di ascoltarlo. Per tradurlo mi sono calato in questo meccanismo visionario, immaginando di fronte a me un’ideale serie di facce affascinate da quello che stavo raccontando e indispettite quando smettevo di lavorare. Così l’uso dei termini veniva condizionato dalle espressioni di quel mio pubblico di fantasmi; mi era chiaro dalle loro smorfie quando, per esempio, l’uso retorico di una frase interrogativa in francese acquistava in italiano una sfumatura petulante, mentre raggiungeva l’effetto voluto se espressa in forma positiva (il francese in genere abbonda sempre troppo di punti interrogativi, per i miei gusti).
Ho capito quanto Schmitt abbia bisogno del pubblico. Non è artista che scriva per sé, per un bisogno impellente di svuotarsi e basta. Almeno, non solo. Scrive per essere letto, ascoltato, goduto. Scrive per divertire il prossimo (forse ho detto un’ovvietà, ma giuro che mi è capitato di tradurre autori che, più che far divertire il loro pubblico, sembravano volerlo torturare a tutti i costi, farlo soffrire, litigarci, angosciarlo).
Non a caso, quando scrive teatro è come un pesce nell’acqua: Piccoli crimini coniugali scorre con la fluidità di una trota in un torrente di montagna, e come una trota salta dall’una all’altra delle molteplici sfaccettature dell’essere in cui ognuno di noi può identificarsi. I racconti brevi (o monologhi teatrali che siano) sono sognanti, ma non nel senso di sconclusionati: sognanti perché ti lasciano dentro il senso della grande verità catturata per un attimo durante un sogno rivelatorio e poi scomparsa al risveglio. Questo almeno è l’effetto che mi ha fatto Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, e ancora di più Milarepa. Nel romanzo lungo, è stupefacente come l’autore riesca a mantenere lo stesso ritmo tamburellante e affabulatorio per quattrocento pagine senza un attimo di cedimento: leggere La parte dell’altro per credere.
Tutto bene, allora? Direi proprio di sì. L’unico punto debole, a volerlo trovare, sono forse le conclusioni. Sarà perché tutto è talmente scoppiettante che uno si aspetta il fuoco d’artificio finale, sarà perché la nostra forma mentis occidentale si ostina a dividere gli eventi in inizio-svolgimento-fine, sta di fatto che in Schmitt c’è una côté taoista che sembra spingerlo invariabilmente verso soluzioni d’equilibrio, quasi a voler sfuggire di proposito la passionalità delle soluzioni estreme. O forse siamo noi che dobbiamo riabituarci al fatto che il vero fuoco d’artificio finale è la serenità.
Alberto Bracci Testasecca